“Inoltrarsi nel più intimo spesso ci porta a toccare la parte più universale di ciascuno di noi.”
(Nadia Terranova)
“Inoltrarsi nel più intimo spesso ci porta a toccare la parte più universale di ciascuno di noi.”
(Nadia Terranova)
Abraham B. Yehoshua, Il tunnel, Einaudi 2018 (pp. 340, euro 20)
Quel che resta, dopo la lettura dell’ultimo romanzo di Yehoshua, è l’autoironia benevola del protagonista, e insieme il senso profondo, la pratica sperimentata dell’amore che da decenni lo lega alla moglie. Due facce della stessa medaglia, due coordinate senza le quali Zvi Luria, ingegnere in pensione, non potrebbe affrontare con realismo e serenità l’avanzare di un’incipiente atrofia cerebrale e la conseguente perdita di memoria, dei nomi innanzitutto. Eppure, proprio questi sintomi, riconosciuti senza mezzi termini come spie di una irrecuperabile “demenza”, sono lo stimolo a reagire: tornare a collaborare, sia pure a titolo gratuito, a progetti stradali come ha fatto tutta la vita può rappresentare la terapia occupazionale migliore. E’ la moglie a suggerirgliela, e a darle possibilità concreta un giovane ingegnere che è andato a occupare quello che era stato il suo ufficio nell’ente pubblico “Percorsi di Israele”, un nome che evoca l’altro filone che attraversa questa come tutte le storie di Yehoshua: la sorte del conflitto fra palestinesi e israeliani, qui attraversato tuttavia da sotterranee correnti di solidarietà fra le due parti che ispirano idee come quella di non spianare la collina che ostacolerebbe la costruzione di una nuova strada militare, ma di attraversarla con un tunnel in grado di consentire la conservazione delle rovine archeologiche che coronano l’altura offrendo rifugio a un nucleo familiare di clandestini arabi. La scrittura piana di Yehoshua sembra echeggiare “lo spirito positivo di calma professionale” che ha sempre connotato l’impegno di Luria e continua a guidare il lavoro di pediatra svolto dalla moglie. L’uno e l’altra personaggi emblematici di un superiore spirito di civiltà non intaccato dalla guerra e capace di indicare una via in un paese dilaniato dalla violenza eppure così piccolo che neanche un demente smemorato potrebbe perdercisi. Un paese in cui del resto tutti sono un po’ “confusi”, ma nel quale sarebbe bello tornare a pensare – come facevano da giovani il protagonista e il suo amico Ben Gurion, il fondatore di Israele – che i contadini arabi e i beduini non fossero altro che “discendenti di ebrei che non se n’erano mai andati da qui, anche se, col tempo, erano stati costretti a convertirsi a un’altra religione”. Una “storia bizzarra”, certo, ma di quelle che “almeno danno speranza”. Proprio come il progetto del tunnel, altrettanto bizzarro, e costoso per di più, e proprio per questo realizzabile – nonostante la prevedibile opposizione dei burocrati del ministero della Difesa – solo in forza di una “demenza creativa” come quella di un “ingegnere senescente”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Se il mondo è davvero truffaldino e irreale come a me sembra stia diventando ogni giorno di più; se ci si sente sempre più impotenti al cospetto di questa irrealtà; se l’esito inevitabile è la distruzione, se non di ogni forma di vita, quantomeno di quasi tutto ciò che di prezioso e civile c’è nella vita… allo perché, in nome di Dio, gli scrittori sono contenti? (…) il fatto che la situazione sia angosciante pesa sullo scrittore non meno, e forse anche più, che su qualunque altro cittadino – perché per lo scrittore la comunità è, in senso stretto, tanto il tema quanto il pubblico. E può accadere che, quando la situazione produce sentimenti non solo di disgusto, rabbia e malinconia ma anche di impotenza, lo scrittore si perda d’animo e finisca per dedicarsi ad altro, alla costruzione di mondi del tutto immaginari, e alla celebrazione dell’io, che può, in diversi modi, diventare il suo tema, nonché la forza che determina il perimetro della sua tecnica.”
(Philip Roth)
Anne Cathrine Bomann, L’ora di Agathe, Iperborea 2019 (pp. 156, euro 15)
Un pacato, sommesso Ebenezer Scrooge nei panni di un vecchio psicanalista. Non siamo alla vigilia di Natale ma una data importante è ormai vicina: sei mesi, e sarà la pensione. Fa il conto alla rovescia delle ore di colloquio che deve fare: il suo lavoro gli si è rivelato sempre più come una “farsa”, noia e fastidio accompagnano le sedute, e l’età si fa sentire: “invecchiare – pensavo, sentendomi invadere dall’amarezza – significa soprattutto veder crescere la differenza tra il proprio io e il proprio corpo, finché un giorno si diventa completamente estranei a se stessi.”
Ma qualcosa accade: la sua fedele segretaria, contravvenendo agli ordini del professionista che assiste da anni, accetta una nuova paziente, anche se è chiaro che la cura richiederà più tempo di quello che resta prima della pensione. Si tratta di una signora, di Agathe appunto, con ricoveri psichiatrici alle spalle, difficilmente classificabile secondo le categorie della malattia mentale. Sennonché, l’inquietudine di Agathe non appare allo psicanalista estranea quanto le sofferenze degli altri pazienti, forse perché lui stesso sente ormai incrinata la sicurezza nella quale ha rinchiuso la propria vita: “Mi resi conto di aver coltivato per tutto quel tempo l’idea che la vita vera, la ricompensa di tutte le fatiche, sarebbe arrivata il giorno in cui fossi andato in pensione. Ma ora, guardando al futuro, non riuscivo proprio a immaginare che la vita contenesse ancora qualcosa di cui rallegrarmi. Non erano l’angoscia e la desolazione le uniche certezze?” Non arretra di fronte a questa rivelazione, il dottore, costretto ad un’ammissione che non avrebbe mai sospettato di poter fare: “Sono esattamente come loro, pensai, mentre uscivo per andare incontro al primo paziente.”
Sia pure in un modo diverso dal personaggio di Dickens, anche lui è stato un avaro, che ha scambiato la freddezza per professionalità, che non ha mai amato nessuno, come confessa al marito moribondo della sua segretaria. Si ritroverà così a piangere al funerale, a confezionare – la prima volta in vita sua – una torta per il vicino con cui fino allora non aveva scambiato che un saluto sbrigativo, e soprattutto a cedere all’attrazione che sente per Agathe: l’invito di lei ad entrare insieme in un caffè chiude il racconto di una vicenda che nessun avvenimento di rilievo ha segnato, se non – come in molti romanzi giapponesi – un mutare di sentimenti, silenzioso, decisivo.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“La facoltà di narrare è una compensazione rispetto alla depressione (…) legata essenzialmente alla coscienza della caducità.”
(Henry Bergson)
Angelo Bendotti, Nel segno di Fenoglio. Lo straordinario e il vero, Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea-Associazione editoriale Il filo di Arianna 2919
La distanza fra storici e narratori della Resistenza – portatori i primi di uno sguardo dall’alto, privo di complicazioni emotive, e i secondi attenti invece a restituire il vissuto di una lotta condotta giorno per giorno – aveva trovato un correttivo a inizio anni Novanta nell’opera di Claudio Pavone. Una guerra civile, in cui lo storico attingeva a testimonianze capaci di render conto della concreta esperienza di quei giorni. Ora, questo libro sembra “annunciare una terza fase nei rapporti fra storici e narratori”: questo il parere autorevole di Gabriele Pedullà, scrittore e critico letterario secondo il quale “Bendotti compie il percorso di Pavone nella direzione opposta: dalla storia alla letteratura”.
A motivare un simile percorso è la convinzione che la letteratura non sia “accessoria”, non si riduca a “un divertissement a fianco della ricerca storica, e che quindi “per studiare la storia della lotta partigiana bisogna innanzitutto partire dai grandi scrittori”: quanto rileva nella sua introduzione Elisabetta Ruffini, attuale direttrice dell’Istituto bergamasco, è subito confermato dall’autore stesso, che nella sua nota d’apertura esprime la sua “gratitudine nei confronti di Beppe Fenoglio (…) perché mai nessuno ha scritto meglio di Resistenza”. Sicché i suoi romanzi possono essere assunti come “una guida dentro la ricerca storica”, nella “consapevolezza che la storia è anche racconto della storia”. E sono appunto racconti quelli che si leggono nei dodici capitoli che si dispongono attorno ai due centrali, in cui si raccolgono le riflessioni di carattere più teorico sul rapporto fra storia e letteratura. Dodici capitoli che – mettendo in risalto momenti e situazioni, ruoli e figure – propongono altrettanti temi, “spesso scomodi e/o poco sviluppati”, che sono le “storie” raccolte dall’autore a mettere in luce: “storie che potrebbero ridare un significato alla parola antifascismo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“Per un vero romanziere la Storia non è altro che un “laboratorio antropologico” per mettere alla prova i suoi personaggi. La Storia, infatti, è la quintessenza dell’astrazione: è popolata da uomini e donne senza volto. Il romanzo corregge la Storia: offre a ogni individuo un volto.”
(Massimo Rizzante)
Patrick Modiano, Ricordi dormienti, Einaudi 2018 (pp. 83, euro 15)
“Mi è capitato più volte di imbattermi nelle stesse persone per le vie di Parigi, persone che non conoscevo. A forza di incrociarle per strada, i loro visi mi diventavano familiari. Credo che mi ignorassero e che solo io notassi quegli incontri fortuiti. Altrimenti ci saremmo salutati o avremmo scambiato due parole. (…) Per consolarmi annotavo scrupolosamente il luogo esatto e l’aspetto fisico di questi sconosciuti.” Del resto, lui, il protagonista, annota anche le parole che ascolta per caso in un bar, per la strada: perché non vadano perdute.
Volti, parole, ma soprattutto ricordi, disseminati in una città di cui si offrono in quantità riferimenti topografici e toponomastici precisi, ma che rimane evanescente, quanto gli amori che ai luoghi restano legati, gli uni e gli altri immersi nella fluidità del sogno.
Ricordi che s’era creduto d’aver smarrito ed erano invece dormienti, e la scrittura sa risvegliare. Una scrittura apparentemente svagata, digressiva, ma in realtà capace di aderire alle pieghe di un’immaginazione sempre al lavoro, sempre all’erta, nell’attesa di incontri che potrebbero risolversi in rivelazioni capaci di far luce sui “misteri di Parigi”, di cui il protagonista è da sempre curioso. Non collezionista, non storico, ma appassionato cultore degli insondabili rimandi fra i volti della città e i percorsi delle esistenze, perché “Parigi è così, disseminata di punti nevralgici e delle forme molteplici che le nostre vite avrebbero potuto assumere”, e di tracce preziose, ancorché enigmatiche, che riportano a momenti della propria vita, a persone che ci si era sforzati di dimenticare, e che invece “ritornano a galla come corpi annegati all’angolo di una strada, dopo decine di anni, a certe ore del giorno”. In una Parigi dove può accadere di trovarsi in “luoghi incerti, specchi di una stagione in cui il tempo sembra essersi fermato – luoghi che spariscono non appena la vita riprende il suo corso e la città il suo aspetto consueto.”
Gli interminabili esercizi di memoria di Modiano sembrano aver trovato il loro più felice approdo in questo paesaggio fluttuante, che lascia a tratti intravedere le strade che la vita non ha preso.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“Scrivere significa sperimentare su se stessi, sperimentare tutto ciò che la vita non permette di sperimentare.”
(Javier Cercas)
Fabio Stassi, Ogni coincidenza ha un’anima, Sellerio 2018 (pp. 282, euro 14)
Il protagonista del romanzo è la memoria, quella biografica, individuale, e quella letteraria, collettiva, perché, incerto e appassionato insieme del mestiere che si è inventato, il protagonista è un “biblioterapeuta”, lo stesso che abbiamo conosciuto in La lettrice scomparsa (Sellerio 2016). E non si direbbe guarito dal “mal di letteratura che l’aveva colpito”: “La mia memoria è alluvionata da indici, frontespizi, quarte di copertina. (…) Ogni libro che leggo è un metro di terra che sottraggo alla realtà. Eppure continuo ad amare la letteratura di un amore sconsiderato, a ricevere i miei pazienti, a dare, per quel poco che conta, un ricovero passeggero ai loro dispiaceri, convinto che non ci sia gesto più umano che leggere (…). Ma le parole degli altri non possono salvare nessuno se non diventano tue.”
E se il paziente ha perso la memoria (il dottor Alzheimer aleggia anche in questo come su innumerevoli altro romanzi di questi anni)? Non resta che cercar di ricostruire dalle poche frasi sconnesse che ha scritto o dice, nella clinica dove si trova, il libro che le conteneva e nel quale avevano senso. Più del malato è allora la sua straordinaria biblioteca a guidare il biblioterapeuta detective e qui, esplicitamente richiamato dall’autore, è quella borgesiana di Babele ad esser chiamata in causa, perché il tempo della biblioteca è “l’eternità”: “La memoria degli uomini era fragile, ma quella della biblioteca perenne. (…) Quel luogo aveva l’età di tutti i libri che conteneva, dal più antico a quello che non era ancora stato scritto.”
Borges, Canetti, ma anche Kafka (alla rilettura della Metamorfosi sono dedicate alcune pagine che valgono l’intero libro) e tanti altri: le digressioni sono all’ordine del giorno, tanto da creare un senso di leggera vertigine di storie nella storia. È forse questa sensazione la musica che attraversa il romanzo: già, perché per giudicarne uno non si tratta di chiedersi di che cosa parla, di com’è costruito, secondo quale stile, ma di porsi solo una domanda, essenziale: “Come suona? Ecco: l’unico interrogativo ragionevole che un lettore dovrebbe porsi di fronte a quello che legge è chiedersi sempre come suona.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Erminio Gius, Compassione, EDB-Edizioni Dehoniane Bologna 2019
La Bibbia e le parabole del Vangelo, da un lato; dall’altro, le argomentazioni provenienti dalla psicologia sperimentale come dalla psichiatria fenomenologico-esistenziale, dalla psicoanalisi come dalle neuroscienze: i due discorsi si confrontano in questo libro, l’uno lascia intravedere l’altro, si direbbe, secondo la relazione tra figura e sfondo messa in risalto dalle immagini che la psicologia della Gestalt ci ha reso familiari. La sicurezza affettiva offerta dal ventre materno sfuma nella serenità onnipotente vissuta nel giardino dell’Eden, ed entrambe sono inevitabilmente esposte al senso del vuoto, al fantasma dell’angoscia, alla presenza luttuosa della morte.
Le acquisizioni della “scienza psicologica” – sondata con l’ampiezza e la profondità che Eugenio Borgna sottolinea nella sua introduzione – sono il veicolo di un “approccio ermeneutico alla Bibbia”, intesa come “un’antropologia esistenziale piena, corposa, appagante e affascinante”. Tra un Prologo e un Epilogo, esplicitamente rivolti a orientare il lettore, si dipana una riflessione densa di riferimenti, ricca di digressioni, attorno al concetto di compassione, dimensione della misericordia – prerogativa divina – cui la persona umana può attingere, nonostante sia “biologicamente progettata per la sua autoconservazione”, facendone il “fondamento della vita sociale e della stessa democrazia”. Perché, e come, gli uomini possano rendersi compassionevoli è il tema della prima parte del saggio; a quale fine, della seconda. La parabola del figlio prodigo e quella del buon samaritano, soprattutto, offrono il “materiale letterario” sul quale si sviluppa “il pensiero sull’uomo compassionevole e sulla possibilità che la compassione diventi un’etica universale per la pace nel mondo”. Una continuità sostanziale lega i due versanti del discorso: la “riparazione del dolore” che la compassione rende possibile attiene sia “all’anelito di raggiungere la pienezza totalizzante rimembrata nella condizione di vita dell’utero materno” sia alle “sacche di dolore innocente” che travagliano l’attuale società globale, una “società smarrita sia nella sua opulenza sia nella sua povertà”, nella sua indifferenza come nella sua sofferenza. Sul fronte individuale e intrafamiliare così come su quello sociale e politico il “destino degli uomini” è comunque segnato dall’irraggiungibilità e dall’impraticabilità di una felicità che – sosteneva Kafka – rimane comunque scopo fondamentale sul cammino di un quotidiano e mai risolto confronto fra la “tentazione antica di inseguire l’onnipotenza narcisistica e l’impegno a vincere il male oscuro della depressione del ripiegamento difensivo”. Ed è qui che la compassione – espressione di “bontà intrinseca” ma anche di “aspetti oscuri” che non si possono ignorare – rivela la sua capacità di offrire “quell’abbraccio di contenimento benedicente che il dolore di vivere impone all’uomo come aiuto ripartivo.”
In questo percorso, la lettura della parabola del figlio prodigo, illuminata da quella della rappresentazione dovuta a Rembrandt, propone alcune tra le pagine più originali e penetranti del libro, capaci di legare in successione l’analisi della posizione e del ruolo del padre con quella delle figure del figlio minore, che ritorna, e del maggiore, che non se n’è mai andato – figura quest’ultima a torto trascurata e in grado invece di rivelare risvolti complessi e inquietanti: quelle che emergono – dilatando e attualizzando il significato della parabola – sono le “motivazioni psicologiche” di fondo, i tre ambiti del bisogno di affiliazione, di potere e di successo.
È poi il personaggio dell’out sider, del reietto – quale è considerato il samaritano dalla casta della religione istituzionalizzata – a offrire il terreno di riflessione necessario a “comprendere che cosa significhi per l’uomo praticare la compassione, intesa come giustizia, che restituisca dignità piena all’uomo offeso”. Fino a giungere all’”ipotesi affascinante, se pure ideale, di una «carta etica mondiale»”, espressione di “una comune resistenza contro le cause del dolore ingiusto e innocente” e riferimento di “un’écumene della compassione” finalizzata ad assicurare “il primato di una coscienziosa e democratica politica mondiale/universale nell’era della globalizzazione.”
“La sua biblioteca era ristretta. Col passar degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a riflettere ed a evitare il superfluo. (…) Da tempo cercava d’allontanare da sé la letteratura, quasi vergognandosi della vanità d’aver voluto essere, in gioventù, scrittore. Era stato svelto a capire l’errore che c’è sotto: la pretesa d’una sopravvivenza individuale, senz’aver fatto nient’altro per meritarla che mettere in salvo un’immagine – vera o falsa – di sé. La letteratura delle persone gli parve una distesa di lapidi del cimitero: quella dei vivi e quella dei morti. Ormai nei libri cercava altro: la sapienza delle epoche o semplicemente qualcosa che servisse a capire qualcosa. Ma siccome era abituato a ragionare per immagini continuava a scegliere nei libri dei pensatori il nocciolo immaginoso, cioè a scambiarli per poeti (…).”
(Italo Calvino)
Giacomo Papi, Il censimento dei radical chic, Feltrinelli 2019 (pp. 141, euro 13)
Siamo dalle parti del “Bispensiero” del George Orwell di 1984, per cui “la menzogna diventa verità e passa alla storia”, e soprattutto della sua “Neolingua”, che lascia spazio solo ai concetti più elementari vietando l’uso di molte parole; ma anche “la milizia del fuoco” di Fahrenheit 451 sembra far capolino in queste pagine, anche se qui di incendi di libri, ad opera dei detentori del potere almeno, non se ne vedono. Forse perché non sono tempi di tragedia i nostri, ma di commedia, e dunque per parlare della catastrofe culturale e politica è più appropriato un romanzo leggero, percorso da un umorismo che cattura fin dalla prima pagina (nonostante il fattaccio da cui si parte). Se infatti è vero che il buon racconto si vede dall’incipit – e lo deve credere certamente Papi, il cui primo romanzo non lasciava dubbi: Era una notte buia e tempestosa. 1430 modi per iniziare un romanzo (Baldini&Castoldi 1993) – ci siamo: “Il primo lo ammazzarono a bastonate perché aveva citato Spinoza durante un talk show”. “Nel mio programma – aveva precisato il conduttore – non permetto a nessuno di usare parole difficili. Le pose da intellettuale sono vietate”, e non era stato da meno il ministro degli Interni: “Si vergogni! Lei fa citazioni mentre il popolo muore di fame”. Ovvio che anche i social facciano la loro parte: “Muori tu e quel culattone di Spinozza!”
Una distopia dunque, di quelle però che ti dicono che il futuro è adesso, non solo perché il “primo ministro degli Interni” (si dice così, essendo che nel nuovo sistema le due figure coincidono…) ha curriculum, modi e fattezze che ricordano da vicino Lui – l’attuale primo ministro degli Interni, appunto – ma anche perché il timbro riprodotto in quarta di copertina ci assicura che “Questo libro non contiene parole difficili”. Lo assicura l’“Autorità Garante per la Semplificazione della lingua Italiana”, e lo dimostrano le cancellature di parole da intellettuali che costellano il testo.
La prima vittima è un attempato professore, esemplare in via di estinzione di quanti hanno “assistito allo sbriciolarsi del loro posto nel mondo senza intuirne le ragioni”: gente ostinatamente legata a modi di pensare novecenteschi – direbbe Baricco –, “parassiti” dicono i più nella Milano in cui la storia si svolge. E chi li guarda con simpatia, se non con rispetto, inutile dirlo: è un buonista, così come – ci viene opportunamente ricordato – quelli che si opposero alle leggi razziali nel 1938 i fascisti li chiamavano ‘pietisti’”.
I buonisti, comunque, sono pochi, sempre meno: il Popolo è unito nell’odio contro gli intellettuali, o meglio: i radical chic, riconoscibili dai maglioni di cachemire che portano ma soprattutto da tutti i libri che si tengono in casa. Nessun pogrom però: l’abbiamo detto, qui siamo alla commedia. Meglio un censimento del radical chic, che li protegga dal giusto furore popolare (sempre che versino la dovuta quota per risultare iscritti: come ad un albo professionale, insomma).
Di qui in poi al lettore resta solo di aspettarsi ad ogni pagina la trovata che tiene in vita fino alla fine il gioco del cosa succederebbe se davvero si arrivasse a questo punto. Si sorride quindi, ma sempre più amaro: il cosa succederebbe si confonde spesso con un inquietante cosa succederà, se non con un cosa sta succedendo. Come quando si arriva al “decalogo” contro la complessità, ad esempio: la complessità “umilia il popolo”, “è noiosa, quindi inutile”, ma soprattutto “è un’arma delle élite per ingannare il popolo”. Dunque, semplificazione della lingua, epurazione di centinaia di lemmi dal Devoto Oli (non dallo Zingarelli, “scartato a causa del nome imbarazzante, tanto più nella versione con Cd-Rom”), nuova grammatica (57 pagine in tutto: al primo posto, l’abolizione del congiuntivo). E intanto, le vittime? gli intellettuali, i radical chic? Be’, c’è da dire che, se si attengono a un comportamento ironicamente prudente non se la passano male. Parlano di politica e letteratura come gli altri di macchine e di sport: niente di più che “una differenza di argomento, non di sostanza”. Ma non tutti sono così: una minoranza continua ad esistere. Quella di chi è convinto che “non è vero che gli intellettuali non servono a niente”: servono a “sentirsi meno soli”, perché “le cose dentro i libri dimostrano che le cose dentro le persone si assomigliano”, e la cultura, più in generale, “è una scommessa sul fatto che alla fine ci si possa capire.” Una scommessa che vale la pena di continuare a giocare anche se “hanno vinto loro, per un po’”. Nel frattempo, conviene non dimenticare le parole incriminate, e dunque abolite. Per “custodirle”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Il fragore dei magli si ode sin dall’ingresso nel paese, ma non giunge fin là, alle limonaie vicine al porto: Toscolano non è paese di giardini d’agrumi. È Gargnano quello, dove se non sono carbonai o pescatori sono giardinieri, e vivono quieti il loro tempo, segnato dal sole e dalla luna, e dalle stagioni. Qui no, qui a dir le ore, estate e inverno, notte e giorno, è l’arrivo da Desenzano dei barconi carichi di stracci per far carta, il passo dei mulattieri coi loro animali che van lungo il fiume a portar sacchi di quella materia per poi riportar di nuovo giù al porto risme candide, e a contare i minuti non è il battere degli orologi ma quello dei magli, che di quegli stracci fan la poltiglia da cui si trae il foglio.
Laggiù alla Capra però, come si dice la piana di ulivi che stan sulla parte sinistra della penisola fatta dal fiume, è ancora la campana della parrocchiale a marcare il tempo, perché oltre la chiesa non ci sono cartiere ma limonaie, le poche che prosperano nel paese della carta.
Continua a leggere Il tempo della limonaiaL’attrice Francesca Garioni legge Il tempo della limonaia, di Carlo Simoni, in occasione della manifestazione “Giardini d’agrumi” (chiostro della Chiesa di S. Francesco a Gargnano, 27 aprile 2019):
Carlo Simoni: Il tempo della limonaia
Per leggere il racconto di Carlo Simoni clicca qui.
Francesca Garioni
presentazione
curriculum
“Uno scrittore è una persona che incatena citazioni togliendo le virgolette.”
(Roland Barthes)
Angelo Villa, L’origine negata. La soggettività e il Corano, Mimesis 2018 (pp. 142, euro 14)
Sapersi confrontare con il diverso, accoglierlo nella sua diversità sono disposizioni che, più o meno implicitamente, implicano l’esigenza di sapere quanto il diverso è tale, come e in che cosa, sapendo bene che è proprio in questa esigenza, in sé legittima ma bisognosa di essere portata alla luce senza ambiguità, che trovano terreno fertile pregiudizi, fantasmi identitari, notizie nella maggior parte dei casi approssimative e parziali.
Nella nostra cultura, la cultura occidentale, il tema della soggettività occupa un posto centrale, e questo tema è ormai inscindibile dalle concezioni introdotte da Freud e dalle elaborazioni successivamente fornite dalla psicoanalisi.
Confrontarsi con la diversità – psicologica, culturale, religiosa, antropologica – significa innanzitutto, per noi, considerare la differenza di atteggiamenti rispetto alla soggettività intesa come rivendicazione della soggettività stessa, di quella realtà “intimamente connessa con quello che un singolo individuo umano è o ritiene di essere”. Una soggettività frutto di interpretazione, quindi, ma di un’interpretazione che non può dimenticare di essere sempre condizionata dal fatto che l’“Io non è padrone in casa propria” e la sua intenzionalità è in buona parte rimossa: è piuttosto l’inconscio ad esprimere, nei modi che gli sono propri, “una tensione che anela alla ricerca di una verità, non appagandosi delle menzogne – difese, coperture, ideologizzazioni – che l’Io subdolamente gli propina” e smascherando impietosamente l’illusione dell’esistenza di un “soggetto consistente, presente e identico a sé”.
Concentrando l’attenzione sulla cultura – sulle culture – “di matrice islamica”, l’autore segnala due circostanze decisive: in primo luogo, la soggettività appare in quest’ambito “un tema poco frequentato”, soprattutto – occorre aggiungere – se a prevalere è, come in effetti pare sia oggi, una lettura dogmatica, ostile a un atteggiamento di interpretazione del Corano. Testo che, comunque, risulta caratterizzato da aporie e contraddizioni che lasciano adito alla visione di un dio che non ammette dialogo con l’uomo, e ad una realtà in cui questioni come quelle della paternità, della femminilità e più in generale della sessualità risultano rigidamente definite, una volta per tutte normate, e per molti aspetti non univocamente tematizzate. Senza che, sull’onda di simili constatazioni, si debba disconoscere la presenza, in questo testo “polisemico”, di passaggi che sembrano aprire a concezioni diverse e porsi con esse in un rapporto di compatibilità.
In secondo luogo, l’inconscio, luogo delle storie che hanno accolto e accompagnato il soggetto dall’inizio della sua esistenza nel mondo, è attraversato dai discorsi, dai desideri, dalle storie degli altri, dei familiari innanzitutto, e più in generale dalla cultura e dalla lingua che definiscono il contesto in cui il soggetto si è venuto a trovare. E il religioso, il tradizionale – nella loro accezione islamica non diversamente che in altre – possono risultare ostacoli al lavoro di analisi e di comprensione della realtà dell’individuo quanto “lo scientismo o la superficialità contemporanea”.
Non si tratta di postulare un’astorica e immutabile realtà umana, indifferente ai caratteri culturali e religiosi nei quali si declina, ma di riconoscere come sia proprio dell’umano interrogarsi circa gli “enigmi che assillano la vita di [ogni] individuo nel suo impatto con l’esistenza, con il trauma rappresentato dalla sessualità”: “ciascun essere umano è erede della propria storia, la quale è inevitabilmente marcata dalla cultura d’appartenenza. La questione riguarda meno la suddetta cultura che non la relazione che il singolo realizza o permette sussista tra la stessa e il prender forma di un percorso di rilettura della medesima.”
Attorno a queste assunzioni di fondo si dipanano analisi e considerazioni storiche e filosofiche che mettono in relazione la religione musulmana con quelle ebraica e cristiana, oltre che ampie digressioni in ambito psicoanalitico che spaziano dal pensiero di Freud a quello di Lacan. Nella consapevolezza che, se sono “semplificazioni” quelle degli islamisti che piegano la loro religione a un’“idéologie de combat”, altrettanto lo sono i “pregiudizi occidentali rispetto all’Islam”: tutti, nel tempo della mondializzazione, siamo “colti di sorpresa ed egualmente impreparati” davanti ai fenomeni inediti e spesso traumatici che, in misura e secondo prospettive diverse, viviamo, ma a tutti si offre la possibilità, anch’essa inedita, della “concretezza di uno scambio” nel quale si fanno “più permeabili le barriere” fra culture diverse e, nello specifico, fra “il sapere freudiano” e la religione musulmana. “Può essere – si domanda in conclusione l’autore – questa crisi, storicamente in atto, l’occasione propizia affinché anche per chi non ha avuto modo, per ragioni cosiddette culturali, di confrontarsi con la realtà del proprio inconscio si materializzi la possibilità di saperne qualcosa?”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Natan Feltrin-Federica Lovato, Umani, prede e predatori, Graphe.it edizioni 2018
Daniele Palmieri-Nicola Zengiato, Il mondo dell’animalità: dalla biologia alla metafisica, Graphe.it edizioni 2018
Ci sono ambiti di discorso che chiedono un pensiero radicale, che esigono di essere prodotti e animati da un pensiero critico alieno da prudenze e distinguo. Quello attinente al rapporto che intercorre tra noi e gli animali, e più in generale all’ecologia e alla crisi dell’ambiente, è uno di questi. E quello quelloquellquellad un’”ecologia filosoficamente intesa” – di cui i primi due volumi della collana “Semi per il futuro” offrono prove illuminanti – appare allora un passaggio obbligato. Non si tratta tanto di ripercorre la storia del pensiero filosofico per rintracciarvi assonanze significative e ascendenti autorevoli – un approccio per altro ineludibile, lo dimostrano studi come Filosofia della crisi ecologica, di Vittorio Hösle (Einaudi 1992) –, quanto di confrontarsi con espressioni disinvoltamente adottate dal linguaggio giornalistico e con concezioni che, come quella antropocentrica, nonostante siano state da tempo sottoposte a critiche circostanziate, risultano nei fatti largamente egemoni.
“Antropocene” è una di quelle espressioni, e non a caso Natan Feltrin si concentra su di essa, depurandola, in primo luogo, di ogni possibile ambiguità: se alla collisone della Terra con un asteroide è generalmente fatta risalire l’estinzione di più del settanta per cento delle specie, sessantacinque milioni di anni fa, oggi, “i Sapiens, e in particolar modo i più ricchi e oltracotanti tra essi, incarnano il micidiale asteroide”, e occorre dunque mettere a fuoco il senso profondo del termine, e correggerlo: l’era “in cui il pianeta esisterà quasi esclusivamente grazie noi e per noi” merita piuttosto di essere definita “Eremocene, l’Era della Solitudine”. Della solitudine di uomini che avranno totalmente sottomesso il wilderness.
Ne deriva la necessità di andare “oltre gli ideali di preservazione e conservazione” imboccando una strada inedita: quella del rewilding, “un processo antropologico in cui Homo sapiens riscopre il suo essere Animale co-partecipe e co-responsabile del proprio ambiente. Un percorso, dunque, di liberazione. Liberazione dell’animale uomo dalle catene che si è autoimposto nel momento in cui domesticando il mondo domesticava, in prima istanza, se stesso”. Vittima del proprio “orgoglio di specie”; in realtà, mai davvero emancipato dalla paura atavica della natura, dell’alterità animale, una paura, e un odio vendicativo, maturati quando gli uomini, lungi dall’essere “predatori alfa” erano al tempo stesso prede e predatori. Uscire finalmente da questo non detto, sotterraneo e pure potente nel forgiare i comportamenti – quello alimentare innanzitutto – è condizione imprescindibile per non “sprofondare nel nichilismo di cui la civiltà globale non è che la maschera”, per segnare una discontinuità netta nel “processo d’estraneazione del genere umano dalla natura”, come sottolinea Federica Lovato a conclusione del suo breve densissimo saggio sulla storia della caccia “Dalla predazione dell’animale alla distruzione dell’ecosistema”: un processo sfociato in “un vero e proprio antagonismo”, dal momento che “l’uomo, oggi, sembra aver assunto che lo sviluppo sociale possa avvenire solo a spese dello sviluppo naturale”.
Mettere in luce un termine come Antropocene porta inevitabilmente all’esame di concezioni radicate, come si diceva: l’antropocentrismo, da questo punto di vista, merita di essere indagato – avendo presente l’insegnamento decisivo di Jacob von Uexküll, sul quale offre un utile contributo Daniele Palmieri – a partire dai due dogmi che sembrano renderlo inattaccabile, ritenendosi impossibile uscirne, obiettivo del resto velleitario in quanto ispirato e conformato comunque entro un quadro di riferimento ineludibilmente antropocentrico. Non si tratta di aggiungere alle molte formulate nuove perorazioni avverse all’antropocentrismo. Occorre invece – spiega Nicola Zengiaro – riuscire ad assumere che “lo stesso mondo – di cui ci pretendiamo più o meno implicitamente al centro – è vissuto da esseri aventi schemi concettuali propri e perciò differenti punti di vista che determinano diverse realtà”: è “attraverso la comparazione percettiva (che) usciamo dal primo dogma”, così come ci liberiano del secondo passando “da strumenti differenti da quelli che comunemente sono accettati come distintivi e specifici di Homo sapiens”, ossia “il ragionamento logico e il linguaggio”. Il discorso va seguito nel suo dipanarsi serrato, e in certi punti senz’altro impegnativo, per arrivare comunque a un’immagine risolutiva – e non estranea all’esperienza di molti – a cui proposito Zengiaro richiama Filosofia dell’animalità di Felice Cimatti: “«Accettare di farsi guardare dall’animale significa aprire la porta a questa molteplicità di viventi”». E’ questo il vero movimento che dev’essere attuato dall’essere umano per uscire dall’antropocentrismo. Significa aprirsi all’evento dell’incontro tra il proprio corpo e l’alterità”, alla possibilità di “comprendere noi stessi attraverso la sensazione di essere guardati dal mondo.”
Lo diceva anche John Berger, quando si chiedeva Perché guardiamo gli animali (Il Saggiatore 2016): “l’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiare lo sguardo degli animali”, somiglianza e diversità convivono nell’attimo in cui vive, sospesa, questa muta reciprocità. Si tratta di accettarla, di non sfuggirla, e allora si comprenderà che “l’animale ha segreti che, a differenza dei segreti delle caverne, delle montagne, dei mari, si rivolgono specificamente all’uomo”.
“[La mia autobiografia,] questa storia che racconto, è solo tratta da una storia vera”
(Bruno Arpaia)
Claudio Coletta, Prima della neve, Sellerio 2019 (pp. 182, euro 13)
Andare per boschi per non doversi un giorno accorgere che non si è vissuto – così Thoreau – o lasciare la città e raggiungere la montagna, per schiarirsi le idee, alla Cognetti: per cercare una verità che giù, fra i rumori e le chiacchiere, si può solo sospettare esista. Ma nel romanzo di Coletta la montagna è un passo obbligato, e non è ospitale. È lavoro duro dietro alle mucche, è freddo, nebbia. Ma è comunque là che occorre andare. Solo là si potrà chiarire il “mistero” di “come certe cose accadano in un preciso momento e non in un altro” e scoprire che “esiste una seconda verità” fra “le pieghe di questa storia, sotterranea e sfuggente”: la storia di due amici, legati da un’amicizia tanto stretta da sconfinare nel patologico, e di due donne, una sorella e una moglie, protagonisti di un romanzo che alterna alla loro vicenda l’evocazione degli anni di piombo, ricordo bruciante per chi li ha vissuti da protagonista e adesso, passati gli anni, non sa spiegare il senso delle proprie scelte se non in negativo: “non c’era altro, se non l’eroina. Metà dei compagni morti di overdose, gli altri in giro come tanti lazzari, a vendersi per una dose tagliata chissà come, le braccia massacrate dai buchi. Hanno invaso l’Italia con quella merda, hanno distrutto un’intera generazione. Non abbiamo avuto scelta, la verità è questa”. E invece no, non era destino che le cose andassero come sono andate: “Come sarebbe bello se davvero esistesse il destino, invece della caotica sequenza di coincidenze, decisioni, azioni, che se ne fregano della nostra volontà e delle nostre speranze.” Solo i sentimenti restano nella casualità insensata cui sembra ridursi la storia di ognuno, sono forse solo quelli a darle una direzione, o a cercare di farlo. Anche quando non se ne sa, o non se ne vuole comprendere il messaggio. Una storia drammatica, e triste, immersa in un disincanto pensoso, raccontata con la leggerezza delle parole di tutti i giorni.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Lisa Ginzburg, Pura invenzione. Dodici invenzioni sul Frankenstein di Mary Shelley, Marsilio 2018 (pp. 109, euro 12)
Se della vicenda conoscete solo la trasposizione cinematografica di Frankenstein Junior, niente paura: anche l’autrice è partita da lì, non sapeva nulla del libro di Mary Shelley prima di leggerlo, rileggerlo e darcene una lettura che non è solo un’analisi originale, ma soprattutto il tramite di una nuova storia che riflette in un gioco di specchi la vicenda della scrittrice inglese, quella dei suoi personaggi – sia il medico visionario che il “Mostro” – e la vicenda dell’autrice stessa. Un gioco di specchi che si annuncia sin dalla copertina, dove titolo e sottotitolo si dispongono specularmente, e si traduce in una serie di rimandi, pertinenti quanto inattesi: la “straziante solitudine” del Mostro sono analoghi all’autocommiserazione di Frankenstein (che è il medico, non come spesso si crede, la sua creatura): “I toni derelitti usati da entrambi sono speculari (…) il creatore lamenta la sconfitta, le conseguenze della propria hubris; il Mostro piange l’amore che gli è mancato – quello di una donna, ma anche quello di un demiurgo/padre.” Sennonché quest’ultimo non riconosce nel Mostro la propria creatura, che a sua volta non può quindi riconoscere nel suo creatore un padre: è da una tale “reciproca, irrimediabile delusione”, che nascono il risentimento, la rabbia. Dei protagonisti. Ma anche di lei, Mary Shelley, rimasta per sempre segnata dalla ferita inferta dalla morte della madre, ferita e indotta a un risentimento che solo nella “pura invenzione” sa trasfigurarsi e dar luogo al lungo racconto che la renderà capace di affrontare la propria condizione di “brava figlia di due persone di preclara fama letteraria”. Ed è qui che anche l’immagine della Ginzburg entra nella storia: “che altro potrei fare – si chiede – vista la mia storia e l’ambiente in cui sono cresciuta?” Che altro se non scrivere? Gli interrogativi che si pone Lisa Ginzburg – nipote di Natalia, figlia di due storici come Carlo Ginzburg e Anna Rossi Doria – sono in tutto simili a quelli con cui si era misurata Mary Shelley: “proprio perché è tanto poco sorprendente che lo faccia, come riuscire, come trovare un modo, un cammino che sia davvero mio?”. E come sentirsi legittimati a seguire questa strada se non ottenendo il riconoscimento di chi quella stessa strada ha, di fatto, indotto a intraprendere? Solo cinque anni dopo la pubblicazione di Frankenstein, il padre di Mary le comunica la propria ammirazione: “Io – confessa Ginzburg – simile legittimazione non l’ho avuta: forse anche per ciò tanto mi emoziona ricordare come l’ho trovata in mia madre, e viceversa sono colpita quando riscontro nelle storie di altri l’incoraggiamento da parte dei loro padri. Basica invidia, la mia: sentirsi appoggiato nei propri talenti, e prima ancora, nelle inclinazioni, sempre, è apparso il dono più grande, il miglior battesimo che si possa ricevere da un genitore.”
Dall’intrico dei richiami e delle analogie in cui il lettore si trova coinvolto, sono le motivazioni e la possibilità stessa di scrivere ad emergere e precisarsi in approssimazioni successive e sempre più stringenti in un libro che nasce dall’incontro con un altro libro, dal quale l’autrice si lascia attraversare ingaggiando un corpo a corpo con la vicenda e le parole di un’altra scrittrice: un caso esemplare di quel lasciarsi leggere dal libro che si sta leggendo di cui ha recentemente scritto Massimo Recalcati (A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Feltrinelli 2018).
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora