“Se il mondo è davvero truffaldino e irreale come a me sembra stia diventando ogni giorno di più; se ci si sente sempre più impotenti al cospetto di questa irrealtà; se l’esito inevitabile è la distruzione, se non di ogni forma di vita, quantomeno di quasi tutto ciò che di prezioso e civile c’è nella vita… allo perché, in nome di Dio, gli scrittori sono contenti? (…) il fatto che la situazione sia angosciante pesa sullo scrittore non meno, e forse anche più, che su qualunque altro cittadino – perché per lo scrittore la comunità è, in senso stretto, tanto il tema quanto il pubblico. E può accadere che, quando la situazione produce sentimenti non solo di disgusto, rabbia e malinconia ma anche di impotenza, lo scrittore si perda d’animo e finisca per dedicarsi ad altro, alla costruzione di mondi del tutto immaginari, e alla celebrazione dell’io, che può, in diversi modi, diventare il suo tema, nonché la forza che determina il perimetro della sua tecnica.”
Anne Cathrine Bomann, L’ora di Agathe, Iperborea 2019 (pp. 156, euro 15)
Un pacato, sommesso Ebenezer
Scrooge nei panni di un vecchio psicanalista. Non siamo alla vigilia di Natale ma
una data importante è ormai vicina: sei mesi, e sarà la pensione. Fa il conto
alla rovescia delle ore di colloquio che deve fare: il suo lavoro gli si è
rivelato sempre più come una “farsa”, noia e fastidio accompagnano le sedute, e
l’età si fa sentire: “invecchiare – pensavo, sentendomi invadere dall’amarezza
– significa soprattutto veder crescere la differenza tra il proprio io e il
proprio corpo, finché un giorno si diventa completamente estranei a se stessi.”
Ma qualcosa accade:
la sua fedele segretaria, contravvenendo agli ordini del professionista che
assiste da anni, accetta una nuova paziente, anche se è chiaro che la cura
richiederà più tempo di quello che resta prima della pensione. Si tratta di una
signora, di Agathe appunto, con ricoveri psichiatrici alle spalle, difficilmente
classificabile secondo le categorie della malattia mentale. Sennonché,
l’inquietudine di Agathe non appare allo psicanalista estranea quanto le
sofferenze degli altri pazienti, forse perché lui stesso sente ormai incrinata
la sicurezza nella quale ha rinchiuso la propria vita: “Mi resi conto di aver
coltivato per tutto quel tempo l’idea che la vita vera, la ricompensa di tutte
le fatiche, sarebbe arrivata il giorno in cui fossi andato in pensione. Ma ora,
guardando al futuro, non riuscivo proprio a immaginare che la vita contenesse
ancora qualcosa di cui rallegrarmi. Non erano l’angoscia e la desolazione le
uniche certezze?” Non arretra di fronte a questa rivelazione, il dottore,
costretto ad un’ammissione che non avrebbe mai sospettato di poter fare: “Sono
esattamente come loro, pensai, mentre uscivo per andare incontro al primo
paziente.”
Sia pure in un modo
diverso dal personaggio di Dickens, anche lui è stato un avaro, che ha
scambiato la freddezza per professionalità, che non ha mai amato nessuno, come
confessa al marito moribondo della sua segretaria. Si ritroverà così a piangere
al funerale, a confezionare – la prima volta in vita sua – una torta per il
vicino con cui fino allora non aveva scambiato che un saluto sbrigativo, e
soprattutto a cedere all’attrazione che sente per Agathe: l’invito di lei ad
entrare insieme in un caffè chiude il racconto di una vicenda che nessun
avvenimento di rilievo ha segnato, se non – come in molti romanzi giapponesi –
un mutare di sentimenti, silenzioso, decisivo.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Angelo Bendotti, Nel segno di Fenoglio. Lo straordinario e il vero, Istituto
bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea-Associazione
editoriale Il filo di Arianna 2919
La distanza fra storici e narratori della
Resistenza – portatori i primi di uno sguardo dall’alto, privo di complicazioni
emotive, e i secondi attenti invece a restituire il vissuto di una lotta
condotta giorno per giorno – aveva trovato un correttivo a inizio anni Novanta
nell’opera di Claudio Pavone. Una guerra civile, in cui lo storico attingeva a
testimonianze capaci di render conto della concreta esperienza di quei giorni.
Ora, questo libro sembra “annunciare una terza fase nei rapporti fra storici e
narratori”: questo il parere autorevole di Gabriele Pedullà, scrittore e
critico letterario secondo il quale “Bendotti compie il percorso di Pavone
nella direzione opposta: dalla storia alla letteratura”.
A motivare un simile percorso è la convinzione che la letteratura non sia “accessoria”, non si riduca a “un divertissement a fianco della ricerca storica, e che quindi “per studiare la storia della lotta partigiana bisogna innanzitutto partire dai grandi scrittori”: quanto rileva nella sua introduzione Elisabetta Ruffini, attuale direttrice dell’Istituto bergamasco, è subito confermato dall’autore stesso, che nella sua nota d’apertura esprime la sua “gratitudine nei confronti di Beppe Fenoglio (…) perché mai nessuno ha scritto meglio di Resistenza”. Sicché i suoi romanzi possono essere assunti come “una guida dentro la ricerca storica”, nella “consapevolezza che la storia è anche racconto della storia”. E sono appunto racconti quelli che si leggono nei dodici capitoli che si dispongono attorno ai due centrali, in cui si raccolgono le riflessioni di carattere più teorico sul rapporto fra storia e letteratura. Dodici capitoli che – mettendo in risalto momenti e situazioni, ruoli e figure – propongono altrettanti temi, “spesso scomodi e/o poco sviluppati”, che sono le “storie” raccolte dall’autore a mettere in luce: “storie che potrebbero ridare un significato alla parola antifascismo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“Per un vero romanziere la Storia non è altro che un “laboratorio antropologico” per mettere alla prova i suoi personaggi. La Storia, infatti, è la quintessenza dell’astrazione: è popolata da uomini e donne senza volto. Il romanzo corregge la Storia: offre a ogni individuo un volto.”
Patrick
Modiano, Ricordi dormienti, Einaudi
2018 (pp. 83, euro 15)
“Mi
è capitato più volte di imbattermi nelle stesse persone per le vie di Parigi,
persone che non conoscevo. A forza di incrociarle per strada, i loro visi mi
diventavano familiari. Credo che mi ignorassero e che solo io notassi quegli
incontri fortuiti. Altrimenti ci saremmo salutati o avremmo scambiato due
parole. (…) Per consolarmi annotavo scrupolosamente il luogo esatto e l’aspetto
fisico di questi sconosciuti.” Del resto, lui, il protagonista, annota anche le
parole che ascolta per caso in un bar, per la strada: perché non vadano
perdute.
Volti,
parole, ma soprattutto ricordi, disseminati in una città di cui si offrono in
quantità riferimenti topografici e toponomastici precisi, ma che rimane
evanescente, quanto gli amori che ai luoghi restano legati, gli uni e gli altri
immersi nella fluidità del sogno.
Ricordi
che s’era creduto d’aver smarrito ed erano invece dormienti, e la scrittura sa
risvegliare. Una scrittura apparentemente svagata, digressiva, ma in realtà
capace di aderire alle pieghe di un’immaginazione sempre al lavoro, sempre
all’erta, nell’attesa di incontri che potrebbero risolversi in rivelazioni
capaci di far luce sui “misteri di Parigi”, di cui il protagonista è da sempre
curioso. Non collezionista, non storico, ma appassionato cultore degli
insondabili rimandi fra i volti della città e i percorsi delle esistenze,
perché “Parigi è così, disseminata di punti nevralgici e delle forme molteplici
che le nostre vite avrebbero potuto assumere”, e di tracce preziose, ancorché
enigmatiche, che riportano a momenti della propria vita, a persone che ci si
era sforzati di dimenticare, e che invece “ritornano a galla come corpi
annegati all’angolo di una strada, dopo decine di anni, a certe ore del
giorno”. In una Parigi dove può accadere di trovarsi in “luoghi incerti,
specchi di una stagione in cui il tempo sembra essersi fermato – luoghi che
spariscono non appena la vita riprende il suo corso e la città il suo aspetto
consueto.”
Gli interminabili esercizi di memoria di Modiano sembrano aver trovato il loro più felice approdo in questo paesaggio fluttuante, che lascia a tratti intravedere le strade che la vita non ha preso.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Fabio Stassi, Ogni
coincidenza ha un’anima, Sellerio 2018 (pp. 282, euro 14)
Il protagonista del romanzo è la memoria, quella biografica, individuale, e quella letteraria, collettiva, perché, incerto e appassionato insieme del mestiere che si è inventato, il protagonista è un “biblioterapeuta”, lo stesso che abbiamo conosciuto in La lettrice scomparsa (Sellerio 2016). E non si direbbe guarito dal “mal di letteratura che l’aveva colpito”: “La mia memoria è alluvionata da indici, frontespizi, quarte di copertina. (…) Ogni libro che leggo è un metro di terra che sottraggo alla realtà. Eppure continuo ad amare la letteratura di un amore sconsiderato, a ricevere i miei pazienti, a dare, per quel poco che conta, un ricovero passeggero ai loro dispiaceri, convinto che non ci sia gesto più umano che leggere (…). Ma le parole degli altri non possono salvare nessuno se non diventano tue.”
E se il paziente ha perso la memoria
(il dottor Alzheimer aleggia anche in questo come su innumerevoli altro romanzi
di questi anni)? Non resta che cercar di ricostruire dalle poche frasi
sconnesse che ha scritto o dice, nella clinica dove si trova, il libro che le
conteneva e nel quale avevano senso. Più del malato è allora la sua
straordinaria biblioteca a guidare il biblioterapeuta detective e qui,
esplicitamente richiamato dall’autore, è quella borgesiana di Babele ad esser
chiamata in causa, perché il tempo della biblioteca è “l’eternità”: “La memoria
degli uomini era fragile, ma quella della biblioteca perenne. (…) Quel luogo
aveva l’età di tutti i libri che conteneva, dal più antico a quello che non era
ancora stato scritto.”
Borges, Canetti, ma anche Kafka (alla rilettura della Metamorfosi sono dedicate alcune pagine che valgono l’intero libro) e tanti altri: le digressioni sono all’ordine del giorno, tanto da creare un senso di leggera vertigine di storie nella storia. È forse questa sensazione la musica che attraversa il romanzo: già, perché per giudicarne uno non si tratta di chiedersi di che cosa parla, di com’è costruito, secondo quale stile, ma di porsi solo una domanda, essenziale: “Come suona? Ecco: l’unico interrogativo ragionevole che un lettore dovrebbe porsi di fronte a quello che legge è chiedersi sempre come suona.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
La Bibbia e le parabole del Vangelo, da un lato; dall’altro,
le argomentazioni provenienti dalla psicologia sperimentale come dalla
psichiatria fenomenologico-esistenziale, dalla psicoanalisi come dalle neuroscienze:
i due discorsi si confrontano in questo libro, l’uno lascia intravedere l’altro,
si direbbe, secondo la relazione tra figura e sfondo messa in risalto dalle immagini
che la psicologia della Gestalt ci ha reso familiari. La sicurezza affettiva
offerta dal ventre materno sfuma nella serenità onnipotente vissuta nel
giardino dell’Eden, ed entrambe sono inevitabilmente esposte al senso del
vuoto, al fantasma dell’angoscia, alla presenza luttuosa della morte.
Le acquisizioni della “scienza psicologica” – sondata con
l’ampiezza e la profondità che Eugenio Borgna sottolinea nella sua introduzione
– sono il veicolo di un “approccio ermeneutico alla Bibbia”, intesa come “un’antropologia
esistenziale piena, corposa, appagante e affascinante”. Tra un Prologo e un Epilogo, esplicitamente rivolti a orientare il lettore, si dipana
una riflessione densa di riferimenti, ricca di digressioni, attorno al concetto
di compassione, dimensione della
misericordia – prerogativa divina – cui la persona umana può attingere,
nonostante sia “biologicamente progettata per la sua autoconservazione”,
facendone il “fondamento della vita sociale e della stessa democrazia”. Perché,
e come, gli uomini possano rendersi compassionevoli è il tema della prima parte
del saggio; a quale fine, della seconda. La parabola del figlio prodigo e
quella del buon samaritano, soprattutto, offrono il “materiale letterario” sul
quale si sviluppa “il pensiero sull’uomo compassionevole e sulla possibilità
che la compassione diventi un’etica universale per la pace nel mondo”. Una
continuità sostanziale lega i due versanti del discorso: la “riparazione del
dolore” che la compassione rende possibile attiene sia “all’anelito di
raggiungere la pienezza totalizzante rimembrata nella condizione di vita
dell’utero materno” sia alle “sacche di dolore innocente” che travagliano
l’attuale società globale, una “società smarrita sia nella sua opulenza sia
nella sua povertà”, nella sua indifferenza come nella sua sofferenza. Sul
fronte individuale e intrafamiliare così come su quello sociale e politico il
“destino degli uomini” è comunque segnato dall’irraggiungibilità e
dall’impraticabilità di una felicità che – sosteneva Kafka – rimane comunque
scopo fondamentale sul cammino di un quotidiano e mai risolto confronto fra la
“tentazione antica di inseguire l’onnipotenza narcisistica e l’impegno a
vincere il male oscuro della depressione del ripiegamento difensivo”. Ed è qui
che la compassione – espressione di “bontà intrinseca” ma anche di “aspetti
oscuri” che non si possono ignorare – rivela la sua capacità di offrire
“quell’abbraccio di contenimento benedicente che il dolore di vivere impone
all’uomo come aiuto ripartivo.”
In questo percorso, la lettura della parabola del figlio
prodigo, illuminata da quella della rappresentazione dovuta a Rembrandt,
propone alcune tra le pagine più originali e penetranti del libro, capaci di legare
in successione l’analisi della posizione e del ruolo del padre con quella delle
figure del figlio minore, che ritorna, e del maggiore, che non se n’è mai
andato – figura quest’ultima a torto trascurata e in grado invece di rivelare risvolti complessi e inquietanti:
quelle che emergono – dilatando e attualizzando il significato della parabola –
sono le “motivazioni psicologiche” di fondo, i tre ambiti del bisogno di
affiliazione, di potere e di successo.
È poi il personaggio dell’out sider, del reietto – quale è considerato il samaritano dalla casta della religione istituzionalizzata – a offrire il terreno di riflessione necessario a “comprendere che cosa significhi per l’uomo praticare la compassione, intesa come giustizia, che restituisca dignità piena all’uomo offeso”. Fino a giungere all’”ipotesi affascinante, se pure ideale, di una «carta etica mondiale»”, espressione di “una comune resistenza contro le cause del dolore ingiusto e innocente” e riferimento di “un’écumene della compassione” finalizzata ad assicurare “il primato di una coscienziosa e democratica politica mondiale/universale nell’era della globalizzazione.”
“La sua biblioteca era ristretta. Col passar degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a riflettere ed a evitare il superfluo. (…) Da tempo cercava d’allontanare da sé la letteratura, quasi vergognandosi della vanità d’aver voluto essere, in gioventù, scrittore. Era stato svelto a capire l’errore che c’è sotto: la pretesa d’una sopravvivenza individuale, senz’aver fatto nient’altro per meritarla che mettere in salvo un’immagine – vera o falsa – di sé. La letteratura delle persone gli parve una distesa di lapidi del cimitero: quella dei vivi e quella dei morti. Ormai nei libri cercava altro: la sapienza delle epoche o semplicemente qualcosa che servisse a capire qualcosa. Ma siccome era abituato a ragionare per immagini continuava a scegliere nei libri dei pensatori il nocciolo immaginoso, cioè a scambiarli per poeti (…).”
Giacomo
Papi, Il censimento dei radical chic,
Feltrinelli 2019 (pp. 141, euro 13)
Siamo dalle parti del “Bispensiero” del George Orwell di 1984, per cui “la menzogna diventa verità e passa alla storia”, e soprattutto della sua “Neolingua”, che lascia spazio solo ai concetti più elementari vietando l’uso di molte parole; ma anche “la milizia del fuoco” di Fahrenheit 451 sembra far capolino in queste pagine, anche se qui di incendi di libri, ad opera dei detentori del potere almeno, non se ne vedono. Forse perché non sono tempi di tragedia i nostri, ma di commedia, e dunque per parlare della catastrofe culturale e politica è più appropriato un romanzo leggero, percorso da un umorismo che cattura fin dalla prima pagina (nonostante il fattaccio da cui si parte). Se infatti è vero che il buon racconto si vede dall’incipit – e lo deve credere certamente Papi, il cui primo romanzo non lasciava dubbi: Era una notte buia e tempestosa. 1430 modi per iniziare un romanzo (Baldini&Castoldi 1993) – ci siamo: “Il primo lo ammazzarono a bastonate perché aveva citato Spinoza durante un talk show”. “Nel mio programma – aveva precisato il conduttore – non permetto a nessuno di usare parole difficili. Le pose da intellettuale sono vietate”, e non era stato da meno il ministro degli Interni: “Si vergogni! Lei fa citazioni mentre il popolo muore di fame”. Ovvio che anche i social facciano la loro parte: “Muori tu e quel culattone di Spinozza!”
Una distopia
dunque, di quelle però che ti dicono che il futuro è adesso, non solo perché il
“primo ministro degli Interni” (si dice così, essendo che nel nuovo sistema le
due figure coincidono…) ha curriculum, modi e fattezze che ricordano da vicino
Lui – l’attuale primo ministro degli Interni, appunto – ma anche perché il
timbro riprodotto in quarta di copertina ci assicura che “Questo libro non
contiene parole difficili”. Lo assicura l’“Autorità Garante per la
Semplificazione della lingua Italiana”, e lo dimostrano le cancellature di
parole da intellettuali che
costellano il testo.
La prima
vittima è un attempato professore, esemplare in via di estinzione di quanti
hanno “assistito allo sbriciolarsi del loro posto nel mondo senza intuirne le
ragioni”: gente ostinatamente legata a modi di pensare novecenteschi – direbbe
Baricco –, “parassiti” dicono i più nella Milano in cui la storia si svolge. E
chi li guarda con simpatia, se non con rispetto, inutile dirlo: è un buonista, così come – ci viene
opportunamente ricordato – quelli che si opposero alle leggi razziali nel 1938
i fascisti li chiamavano ‘pietisti’”.
I buonisti,
comunque, sono pochi, sempre meno: il Popolo
è unito nell’odio contro gli intellettuali, o meglio: i radical chic, riconoscibili dai maglioni di cachemire che portano
ma soprattutto da tutti i libri che si tengono in casa. Nessun pogrom però:
l’abbiamo detto, qui siamo alla commedia. Meglio un censimento del radical
chic, che li protegga dal giusto furore popolare (sempre che versino la dovuta
quota per risultare iscritti: come ad un albo professionale, insomma).
Di qui in poi al lettore resta solo di aspettarsi ad ogni pagina la trovata che tiene in vita fino alla fine il gioco del cosa succederebbe se davvero si arrivasse a questo punto. Si sorride quindi, ma sempre più amaro: il cosa succederebbe si confonde spesso con un inquietante cosa succederà, se non con un cosa sta succedendo. Come quando si arriva al “decalogo” contro la complessità, ad esempio: la complessità “umilia il popolo”, “è noiosa, quindi inutile”, ma soprattutto “è un’arma delle élite per ingannare il popolo”. Dunque, semplificazione della lingua, epurazione di centinaia di lemmi dal Devoto Oli (non dallo Zingarelli, “scartato a causa del nome imbarazzante, tanto più nella versione con Cd-Rom”), nuova grammatica (57 pagine in tutto: al primo posto, l’abolizione del congiuntivo). E intanto, le vittime? gli intellettuali, i radical chic? Be’, c’è da dire che, se si attengono a un comportamento ironicamente prudente non se la passano male. Parlano di politica e letteratura come gli altri di macchine e di sport: niente di più che “una differenza di argomento, non di sostanza”. Ma non tutti sono così: una minoranza continua ad esistere. Quella di chi è convinto che “non è vero che gli intellettuali non servono a niente”: servono a “sentirsi meno soli”, perché “le cose dentro i libri dimostrano che le cose dentro le persone si assomigliano”, e la cultura, più in generale, “è una scommessa sul fatto che alla fine ci si possa capire.” Una scommessa che vale la pena di continuare a giocare anche se “hanno vinto loro, per un po’”. Nel frattempo, conviene non dimenticare le parole incriminate, e dunque abolite. Per “custodirle”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Il
fragore dei magli si ode sin dall’ingresso nel paese, ma non giunge fin là,
alle limonaie vicine al porto: Toscolano non è paese di giardini d’agrumi. È
Gargnano quello, dove se non sono carbonai o pescatori sono giardinieri, e
vivono quieti il loro tempo, segnato dal sole e dalla luna, e dalle stagioni.
Qui no, qui a dir le ore, estate e inverno, notte e giorno, è l’arrivo da
Desenzano dei barconi carichi di stracci per far carta, il passo dei mulattieri
coi loro animali che van lungo il fiume a portar sacchi di quella materia per
poi riportar di nuovo giù al porto risme candide, e a contare i minuti non è il
battere degli orologi ma quello dei magli, che di quegli stracci fan la
poltiglia da cui si trae il foglio.
Laggiù alla Capra però, come si dice la piana di ulivi che stan sulla parte sinistra della penisola fatta dal fiume, è ancora la campana della parrocchiale a marcare il tempo, perché oltre la chiesa non ci sono cartiere ma limonaie, le poche che prosperano nel paese della carta.
L’attrice Francesca Garioni legge Il tempo della limonaia, di Carlo Simoni, in occasione della manifestazione “Giardini d’agrumi” (chiostro della Chiesa di S. Francesco a Gargnano, 27 aprile 2019):
Angelo Villa, L’origine negata. La soggettività e il Corano, Mimesis 2018 (pp. 142, euro 14)
Sapersi
confrontare con il diverso, accoglierlo nella sua diversità sono disposizioni
che, più o meno implicitamente, implicano l’esigenza di sapere quanto il diverso è tale, come e in che
cosa, sapendo bene che è proprio in questa esigenza, in sé legittima ma
bisognosa di essere portata alla luce senza ambiguità, che trovano terreno
fertile pregiudizi, fantasmi identitari, notizie nella maggior parte dei casi
approssimative e parziali.
Nella
nostra cultura, la cultura occidentale, il tema della soggettività occupa un
posto centrale, e questo tema è ormai inscindibile dalle concezioni introdotte
da Freud e dalle elaborazioni successivamente fornite dalla psicoanalisi.
Confrontarsi
con la diversità – psicologica, culturale, religiosa, antropologica – significa
innanzitutto, per noi, considerare la differenza di atteggiamenti rispetto alla
soggettività intesa come rivendicazione della
soggettività stessa, di quella realtà “intimamente connessa con quello che un
singolo individuo umano è o ritiene di essere”. Una soggettività frutto di
interpretazione, quindi, ma di un’interpretazione che non può dimenticare di
essere sempre condizionata dal fatto che l’“Io non è padrone in casa propria” e
la sua intenzionalità è in buona parte rimossa: è piuttosto l’inconscio ad
esprimere, nei modi che gli sono propri, “una tensione che anela alla ricerca
di una verità, non appagandosi delle menzogne – difese, coperture, ideologizzazioni
– che l’Io subdolamente gli propina” e smascherando impietosamente l’illusione
dell’esistenza di un “soggetto consistente, presente e identico a sé”.
Concentrando
l’attenzione sulla cultura – sulle culture
– “di matrice islamica”, l’autore segnala due circostanze decisive: in primo
luogo, la soggettività appare in quest’ambito “un tema poco frequentato”,
soprattutto – occorre aggiungere – se a prevalere è, come in effetti pare sia
oggi, una lettura dogmatica, ostile a un atteggiamento di interpretazione del
Corano. Testo che, comunque, risulta caratterizzato da aporie e contraddizioni
che lasciano adito alla visione di un dio che non ammette dialogo con l’uomo, e
ad una realtà in cui questioni come quelle della paternità, della femminilità e
più in generale della sessualità risultano rigidamente definite, una volta per
tutte normate, e per molti aspetti non univocamente tematizzate. Senza che,
sull’onda di simili constatazioni, si debba disconoscere la presenza, in questo
testo “polisemico”, di passaggi che sembrano aprire a concezioni diverse e
porsi con esse in un rapporto di compatibilità.
In
secondo luogo, l’inconscio, luogo delle storie che hanno accolto e accompagnato
il soggetto dall’inizio della sua esistenza nel mondo, è attraversato dai
discorsi, dai desideri, dalle storie degli altri, dei familiari innanzitutto, e
più in generale dalla cultura e dalla lingua che definiscono il contesto in cui
il soggetto si è venuto a trovare. E il religioso, il tradizionale – nella loro
accezione islamica non diversamente che in altre – possono risultare ostacoli
al lavoro di analisi e di comprensione della realtà dell’individuo quanto “lo
scientismo o la superficialità contemporanea”.
Non si tratta di postulare un’astorica e immutabile realtà umana, indifferente ai caratteri culturali e religiosi nei quali si declina, ma di riconoscere come sia proprio dell’umano interrogarsi circa gli “enigmi che assillano la vita di [ogni] individuo nel suo impatto con l’esistenza, con il trauma rappresentato dalla sessualità”: “ciascun essere umano è erede della propria storia, la quale è inevitabilmente marcata dalla cultura d’appartenenza. La questione riguarda meno la suddetta cultura che non la relazione che il singolo realizza o permette sussista tra la stessa e il prender forma di un percorso di rilettura della medesima.”
Attorno a queste assunzioni di fondo si dipanano analisi e considerazioni storiche e filosofiche che mettono in relazione la religione musulmana con quelle ebraica e cristiana, oltre che ampie digressioni in ambito psicoanalitico che spaziano dal pensiero di Freud a quello di Lacan. Nella consapevolezza che, se sono “semplificazioni” quelle degli islamisti che piegano la loro religione a un’“idéologie de combat”, altrettanto lo sono i “pregiudizi occidentali rispetto all’Islam”: tutti, nel tempo della mondializzazione, siamo “colti di sorpresa ed egualmente impreparati” davanti ai fenomeni inediti e spesso traumatici che, in misura e secondo prospettive diverse, viviamo, ma a tutti si offre la possibilità, anch’essa inedita, della “concretezza di uno scambio” nel quale si fanno “più permeabili le barriere” fra culture diverse e, nello specifico, fra “il sapere freudiano” e la religione musulmana. “Può essere – si domanda in conclusione l’autore – questa crisi, storicamente in atto, l’occasione propizia affinché anche per chi non ha avuto modo, per ragioni cosiddette culturali, di confrontarsi con la realtà del proprio inconscio si materializzi la possibilità di saperne qualcosa?”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Natan Feltrin-Federica Lovato, Umani, prede e predatori, Graphe.it
edizioni 2018
Daniele Palmieri-Nicola Zengiato, Il mondo dell’animalità: dalla biologia alla
metafisica, Graphe.it edizioni 2018
Ci sono ambiti di discorso che chiedono
un pensiero radicale, che esigono di essere prodotti e animati da un pensiero
critico alieno da prudenze e distinguo. Quello attinente al rapporto che
intercorre tra noi e gli animali, e più in generale all’ecologia e alla crisi
dell’ambiente, è uno di questi. E quello quelloquellquellad un’”ecologia filosoficamente intesa” – di cui i
primi due volumi della collana “Semi per il futuro” offrono prove illuminanti –
appare allora un passaggio obbligato. Non si tratta tanto di ripercorre la
storia del pensiero filosofico per rintracciarvi assonanze significative e
ascendenti autorevoli – un approccio per altro ineludibile, lo dimostrano studi
come Filosofia della crisi ecologica,
di Vittorio Hösle (Einaudi 1992) –, quanto di confrontarsi con espressioni disinvoltamente adottate dal
linguaggio giornalistico e con concezioni che, come quella antropocentrica,
nonostante siano state da tempo sottoposte a critiche circostanziate, risultano
nei fatti largamente egemoni.
“Antropocene” è una di quelle
espressioni, e non a caso Natan Feltrin si concentra su di essa, depurandola,
in primo luogo, di ogni possibile ambiguità: se alla collisone della Terra con un
asteroide è generalmente fatta risalire l’estinzione di più del settanta per
cento delle specie, sessantacinque milioni di anni fa, oggi, “i Sapiens, e in particolar modo i più
ricchi e oltracotanti tra essi, incarnano il micidiale asteroide”, e occorre
dunque mettere a fuoco il senso profondo del termine, e correggerlo: l’era “in
cui il pianeta esisterà quasi esclusivamente grazie noi e per noi” merita piuttosto di essere
definita “Eremocene, l’Era della
Solitudine”. Della solitudine di uomini che avranno totalmente sottomesso
il wilderness.
Ne deriva la necessità di andare
“oltre gli ideali di preservazione e conservazione” imboccando una strada
inedita: quella del rewilding, “un
processo antropologico in cui Homo
sapiens riscopre il suo essere Animale co-partecipe e co-responsabile del
proprio ambiente. Un percorso, dunque, di liberazione. Liberazione dell’animale
uomo dalle catene che si è autoimposto nel momento in cui domesticando il mondo
domesticava, in prima istanza, se stesso”. Vittima del proprio “orgoglio di
specie”; in realtà, mai davvero emancipato dalla paura atavica della natura,
dell’alterità animale, una paura, e un odio vendicativo, maturati quando gli uomini, lungi dall’essere
“predatori alfa” erano al tempo stesso prede e predatori. Uscire finalmente da
questo non detto, sotterraneo e pure potente nel forgiare i comportamenti –
quello alimentare innanzitutto – è condizione imprescindibile per non
“sprofondare nel nichilismo di cui la civiltà globale non è che la maschera”,
per segnare una discontinuità netta nel “processo d’estraneazione del genere
umano dalla natura”, come sottolinea Federica Lovato a conclusione del suo
breve densissimo saggio sulla storia della caccia “Dalla predazione
dell’animale alla distruzione dell’ecosistema”: un processo sfociato in “un
vero e proprio antagonismo”, dal momento che “l’uomo, oggi, sembra aver assunto
che lo sviluppo sociale possa avvenire solo a spese dello sviluppo naturale”.
Mettere in luce un termine come Antropocene porta inevitabilmente
all’esame di concezioni radicate, come si diceva: l’antropocentrismo, da questo
punto di vista, merita di essere indagato – avendo presente l’insegnamento
decisivo di Jacob von Uexküll, sul quale offre un utile contributo Daniele
Palmieri – a partire dai due dogmi che sembrano renderlo inattaccabile,
ritenendosi impossibile uscirne, obiettivo del resto velleitario in quanto
ispirato e conformato comunque entro un quadro di riferimento ineludibilmente
antropocentrico. Non si tratta di aggiungere alle molte formulate nuove
perorazioni avverse all’antropocentrismo. Occorre invece – spiega Nicola
Zengiaro – riuscire ad assumere che “lo stesso mondo – di cui ci pretendiamo più
o meno implicitamente al centro – è vissuto da esseri aventi schemi concettuali
propri e perciò differenti punti di vista che determinano diverse realtà”: è
“attraverso la comparazione percettiva (che) usciamo dal primo dogma”, così
come ci liberiano del secondo passando “da strumenti differenti da quelli che
comunemente sono accettati come distintivi e specifici di Homo sapiens”, ossia “il ragionamento logico e il linguaggio”. Il
discorso va seguito nel suo dipanarsi serrato, e in certi punti senz’altro impegnativo,
per arrivare comunque a un’immagine risolutiva – e non estranea all’esperienza
di molti – a cui proposito Zengiaro richiama Filosofia dell’animalità di Felice Cimatti: “«Accettare di farsi
guardare dall’animale significa aprire la porta a questa molteplicità di
viventi”». E’ questo il vero movimento che dev’essere attuato dall’essere umano
per uscire dall’antropocentrismo. Significa aprirsi all’evento dell’incontro
tra il proprio corpo e l’alterità”, alla possibilità di “comprendere noi stessi
attraverso la sensazione di essere guardati dal mondo.”
Lo diceva anche John Berger, quando si chiedeva Perché guardiamo gli animali (Il Saggiatore 2016): “l’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiare lo sguardo degli animali”, somiglianza e diversità convivono nell’attimo in cui vive, sospesa, questa muta reciprocità. Si tratta di accettarla, di non sfuggirla, e allora si comprenderà che “l’animale ha segreti che, a differenza dei segreti delle caverne, delle montagne, dei mari, si rivolgono specificamente all’uomo”.
Claudio Coletta, Prima
della neve, Sellerio 2019 (pp. 182, euro 13)
Andare per boschi per non doversi un giorno accorgere che non si è vissuto – così Thoreau – o lasciare la città e raggiungere la montagna, per schiarirsi le idee, alla Cognetti: per cercare una verità che giù, fra i rumori e le chiacchiere, si può solo sospettare esista. Ma nel romanzo di Coletta la montagna è un passo obbligato, e non è ospitale. È lavoro duro dietro alle mucche, è freddo, nebbia. Ma è comunque là che occorre andare. Solo là si potrà chiarire il “mistero” di “come certe cose accadano in un preciso momento e non in un altro” e scoprire che “esiste una seconda verità” fra “le pieghe di questa storia, sotterranea e sfuggente”: la storia di due amici, legati da un’amicizia tanto stretta da sconfinare nel patologico, e di due donne, una sorella e una moglie, protagonisti di un romanzo che alterna alla loro vicenda l’evocazione degli anni di piombo, ricordo bruciante per chi li ha vissuti da protagonista e adesso, passati gli anni, non sa spiegare il senso delle proprie scelte se non in negativo: “non c’era altro, se non l’eroina. Metà dei compagni morti di overdose, gli altri in giro come tanti lazzari, a vendersi per una dose tagliata chissà come, le braccia massacrate dai buchi. Hanno invaso l’Italia con quella merda, hanno distrutto un’intera generazione. Non abbiamo avuto scelta, la verità è questa”. E invece no, non era destino che le cose andassero come sono andate: “Come sarebbe bello se davvero esistesse il destino, invece della caotica sequenza di coincidenze, decisioni, azioni, che se ne fregano della nostra volontà e delle nostre speranze.” Solo i sentimenti restano nella casualità insensata cui sembra ridursi la storia di ognuno, sono forse solo quelli a darle una direzione, o a cercare di farlo. Anche quando non se ne sa, o non se ne vuole comprendere il messaggio. Una storia drammatica, e triste, immersa in un disincanto pensoso, raccontata con la leggerezza delle parole di tutti i giorni.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Lisa Ginzburg, Pura
invenzione. Dodici invenzioni sul Frankenstein di Mary Shelley, Marsilio
2018 (pp. 109, euro 12)
Se della vicenda conoscete solo la trasposizione
cinematografica di Frankenstein Junior,
niente paura: anche l’autrice è partita da lì, non sapeva nulla del libro di
Mary Shelley prima di leggerlo, rileggerlo e darcene una lettura che non è solo
un’analisi originale, ma soprattutto il tramite di una nuova storia che
riflette in un gioco di specchi la vicenda della scrittrice inglese, quella dei
suoi personaggi – sia il medico visionario che il “Mostro” – e la vicenda
dell’autrice stessa. Un gioco di specchi che si annuncia sin dalla copertina,
dove titolo e sottotitolo si dispongono specularmente, e si traduce in una
serie di rimandi, pertinenti quanto inattesi: la “straziante solitudine” del
Mostro sono analoghi all’autocommiserazione di Frankenstein (che è il medico,
non come spesso si crede, la sua creatura): “I toni derelitti usati da entrambi
sono speculari (…) il creatore lamenta la sconfitta, le conseguenze della
propria hubris; il Mostro piange
l’amore che gli è mancato – quello di una donna, ma anche quello di un
demiurgo/padre.” Sennonché quest’ultimo non riconosce nel Mostro la propria
creatura, che a sua volta non può quindi riconoscere nel suo creatore un padre:
è da una tale “reciproca, irrimediabile delusione”, che nascono il
risentimento, la rabbia. Dei protagonisti. Ma anche di lei, Mary Shelley,
rimasta per sempre segnata dalla ferita inferta dalla morte della madre, ferita
e indotta a un risentimento che solo nella “pura invenzione” sa trasfigurarsi e
dar luogo al lungo racconto che la renderà capace di affrontare la propria
condizione di “brava figlia di due persone di preclara fama letteraria”. Ed è
qui che anche l’immagine della Ginzburg entra nella storia: “che altro potrei
fare – si chiede – vista la mia storia e l’ambiente in cui sono cresciuta?” Che
altro se non scrivere? Gli interrogativi che si pone Lisa Ginzburg – nipote di
Natalia, figlia di due storici come Carlo Ginzburg e Anna Rossi Doria – sono in
tutto simili a quelli con cui si era misurata Mary Shelley: “proprio perché è
tanto poco sorprendente che lo faccia, come riuscire, come trovare un modo, un
cammino che sia davvero mio?”. E come sentirsi legittimati a seguire questa
strada se non ottenendo il riconoscimento di chi quella stessa strada ha, di fatto,
indotto a intraprendere? Solo cinque anni dopo la pubblicazione di
Frankenstein, il padre di Mary le comunica la propria ammirazione: “Io –
confessa Ginzburg – simile legittimazione non l’ho avuta: forse anche per ciò
tanto mi emoziona ricordare come l’ho trovata in mia madre, e viceversa sono
colpita quando riscontro nelle storie di altri l’incoraggiamento da parte dei
loro padri. Basica invidia, la mia: sentirsi appoggiato nei propri talenti, e
prima ancora, nelle inclinazioni, sempre, è apparso il dono più grande, il
miglior battesimo che si possa ricevere da un genitore.”
Dall’intrico dei richiami e delle analogie in cui il lettore si trova coinvolto, sono le motivazioni e la possibilità stessa di scrivere ad emergere e precisarsi in approssimazioni successive e sempre più stringenti in un libro che nasce dall’incontro con un altro libro, dal quale l’autrice si lascia attraversare ingaggiando un corpo a corpo con la vicenda e le parole di un’altra scrittrice: un caso esemplare di quel lasciarsi leggere dal libro che si sta leggendo di cui ha recentemente scritto Massimo Recalcati (A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Feltrinelli 2018).
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“[L’arte di narrare] si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi vorrebbe sentirsi raccontare una storia.”
Nadia Terranova, Addio
Fantasmi, Einaudi 2018 (pp. 202, euro 17)
A che punto si è nella vita: forse è questo che dei loro
protagonisti vorremmo i romanzi ci dicessero, e il racconto fosse lo spazio
necessario per dirci delle ragioni e dei percorsi che li han portati lì.
Leggere romanzi è anche questo: confrontarsi con le storie di altri per
ricavare spunti utili a far luce sulla propria, a farsi un’idea del punto cui
ciascuno di noi è arrivato.
La vita di Ida è di quelle segnate da un prima e un dopo.
Lei è nel dopo, ma non sa dimenticare il prima né tanto meno la linea che ha
separato le due parti in cui la sua esistenza si è divisa. Ci sarà uno stacco
ulteriore, una seconda cesura capace di restituirle una vita sua? Il titolo ce lo fa pensare,
l’inizio no: la madre l’ha chiamata a Messina perché ha deciso di sistemare la
casa in cui la famiglia abitava, in cui lei ha continuato ad abitare; in cui ha
abitato anche il marito, il padre di Ida –fino al giorno in cui, senza
preavviso, se n’è andato, è scomparso, annientato dalla depressione – e anche
la figlia ha abitato, prima di trasferirsi a Roma, trovare un lavoro (scrive
“finte storie vere” per la radio) e sposarsi, con un uomo gentile, con il quale
però il desiderio si è esaurito. E il desiderio, quando si è incrinato, non si
può “rattoppare”, neanche se si è ancora giovani, poco più che trentenni, e quel
che resta sono allora la tenerezza, la comprensione, la solidarietà. Perché i
matrimoni, tutti i matrimoni si arenano “imprigionati nella pretesa di avere
accanto un’unica persona a cui abbiamo chiesto di farci da amante, compagno,
familiare, amico, per poi assistere devastati all’inevitabile franare di una di
queste definizioni o di tutte insieme.” Sono parecchie le pagine riservate al
tema del rapporto fra uomini e donne, ma non è, questo, l’unico fulcro attorno
al quale la narrazione si addensa: la madre ha chiamato la figlia per
svuotarla, quella casa, non solo per sistemarla in vista di una possibile
vendita. E qui emerge il discorso sugli oggetti, e sul loro essere appigli
essenziali, veicoli imprescindibili della memoria: “Non voleva che un giorno
potessi rinfacciarle di aver dato via i miei oggetti, bisognava che tornassi
per scegliere cosa lasciar andare. Pensai che era facile, perché, a parte una
scatola di ferro rosso custodita in fondo a un cassetto, non tenevo a niente.”
Una scatola di ferro rosso: “dal momento in cui un oggetto compare in una
narrazione, si carica d’una forza speciale”, notava Calvino, ed è questo il
caso, come scopriremo nelle ultime pagine. Ma prima di arrivarci occorre
attraversarne altre, pervase da un dire teso, accorato, incerto della propria
necessità eppure costretto da un bisogno di ricostruire, capire, dissezionare i
sentimenti, evocare fino allo stremo quel passato che non sa passare, quel
lutto non elaborato dalla madre e tanto meno dalla figlia, e tuttavia marcando passi avanti, sempre precari ma capaci di fissarsi in frasi, in immagini
che sostanziano la vicenda, la rendono unica, ne mettono in luce aspetti che
vanno oltre di essa e ci raggiungono. A partire, appunto, dai passi dedicati
alle cose che ci seguono nella vita, che conserviamo e finiscono per assumere
la fisionomia di “speranze inutilizzate”. Perché “la vita non si fa con i
residui”, e gli oggetti, anche i più cari, i più evocativi, “non sono
affidabili”, e “i ricordi non esistono, esistono solo le ossessioni”. E
ossessivo è il dolore della perdita del padre: “Hai permesso al tuo dolore di
divorarti – dice a Ida l’unica amica rimasta nella città natale – e la tua ferita
è diventata più grande di te. Vivi come una schiava, sei la schiava di quello
che ti è successo”. E lo ammette la stessa protagonista: “Amiamo le nostre
ossessioni, e non si ama ciò che ci rende felici”.
“Una diade ossessiva” è anche quella formata da madre e
figlia: “sbranarci era una forma d’intimità”, riconosce Ida, che ha capito
“cos’è davvero una madre: qualcosa da cui non esiste riparo. Dicono che una
madre dà tutto e non chiede niente; nessuno dice invece che chiede tutto e dà
ciò che non chiediamo di avere.”
Scrivere allora. Quelle storie per la radio: “io riuscivo a
tollerare il dolore solo scrivendone, e trasformandolo in invenzione potevo
trovare quella pace che nella quotidianità mi mancava”; “i fatti scorrono
accanto a noi mentre ci illudiamo, un giorno, di dominarli. Ecco perché mi
rifugiavo nelle mie finte storie vere: su di loro io esercitavo una signoria
assoluta. Di quello che scrivevo ero sovrana. (…) Scrivendo, mi illudevo di
essere autarchica.”
Non dalla scrittura però ma da un oggetto, anzi dai due oggetti riposti ventitre anni prima in quella scatola rossa, verrà la liberazione: dalla pipa appartenuta al padre e dalla sua voce, registrata in un’audiocassetta. Perché sono l’odore e la voce, “le due tracce più volatili”, a riportarci la vicinanza di chi è assente. Una vicinanza che può tuttavia risolversi nella distanza necessaria per vivere, finalmente.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
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