“Ogni autore ha un insieme limitato di temi archetipici, a volte uno soltanto. Più che sceglierli, li ereditiamo dalla configurazione della nostra vita. Anche se cerchiamo di espellerli dal libro a cui stiamo lavorando, spesso riescono a trovare il modo per intrufolarsi di nuovo.”
Ludovica Danieli, Donatella Messina, A scuola di autobiografia.Gràphein, Mimesis 2018 (pp. 140, euro
12)
Il sottotitolo rimanda alla pratica alla quale la
Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari da vent’anni avvicina coloro
che, secondo percorsi e gradi di approssimazione diversi, hanno individuato
nella scrittura una risorsa per la vita e nello scrivere di sé la via per
accedervi (“Il progetto di scrivere la mia
storia ha preso forma quasi contemporaneamente al progetto di scrivere”,
diceva Georges Perec). Una Scuola di scrittura autobiografica, quindi,
che tuttavia non si può confondere con le numerose scuole di scrittura che al
di là delle intenzioni, finiscono nella maggior parte dei casi per limitarsi a trasmettere
regole e tecniche, più o meno efficaci.
I presupposti della Lua e le sue finalità traggono
spunto dal pensiero di Duccio Demetrio e dalla sua concezione dell’autobiografia
come cura di sé (come recitava il titolo del libro pubblicato alla vigilia
dell’avvio dell’esperienza di Anghiari: Raccontarsi.
L’autobiografia come cura di sé, Cortina 1996). “Un luogo accogliente,
tranquillo, silenzioso” e la possibilità di godere di un “tempo per sé” sono
dunque ciò che in primo luogo si offre: silenzio e solitudine, condizioni ma
anche sostanza dello scrivere, insieme tuttavia allo scambio, a un confronto
con gli altri improntato alla “cura”, intesa come forma della relazione, e alla
sospensione del giudizio sulla propria e l’altrui scrittura. È lo “stare individualmente insieme” di cui parlava Bauman,
la condizione di fondo che si persegue, il quadro entro il quale lo scrivere di
sé può evitare il rischio del ripiegamento narcisistico e l’illusione
dell’autosufficienza per consentire invece un avvicinamento al “nucleo
centrale” che costituisce ognuno di noi, che ci fa simili e allo stesso tempo
unici. Avvicinamento, mai compiuto disvelamento, perché la scrittura non ci
restituisce una verità, oggettiva e
inconfutabile, su noi stessi e la nostra vita, ma permette di individuare i nodi
della nostra esistenza riattivando la memoria, rivisitando i ricordi,
recuperando la dimensione collettiva entro la quale si sono formati.
Non è un’operazione semplice, attuabile a partire
semplicemente dal desiderio di scrivere di sé: incertezze e resistenze vi si
oppongono. Occorre interrompere la “voce interna che sembra colonizzare il
pensiero”, sono necessari il coraggio di esporsi e insieme l’umiltà di
riconoscere il proprio limite per accettare e dar corso all’umana aspirazione a
lasciare una traccia della propria storia.
È per questo infatti che si scrive, secondo molti che
della scrittura hanno fatto il loro lavoro: si scrive perché si ha paura della
morte, ma anche perché si ha paura della vita; si scrive per dare sbocco alla nostalgia
dell’infanzia, ma anche per attenuare il rimpianto, o il rimorso, per le scelte
non fatte, che hanno determinato la nostra vicenda quanto quelle fatte, e
dunque per “avvolgere il dolore in una rete di parole”, per riuscire a sentirlo
come parte ineliminabile e costitutiva di sé; si scrive dunque per trovare un
senso della nostra esistenza. Ma anche per giocare: per giocare con la serietà
di cui sono capaci i bambini.
Non solo il coraggio di osare e l’umiltà di farlo con
senso della misura, occorrono per scrivere, ma anche introspezione e insieme
presa di distanza da se stessi, quella sorta di “bilocazione cognitiva” che si
rivela come un guadagno sul piano della conoscenza di sé, ma anche su quello
più propriamente esistenziale, incoraggiando la rinuncia a collocarsi sempre “nel
fare, nell’agire, nell’accelerare”, quando invece si tratta, scrivendo, di “rallentare,
fino a fermarsi, rispettare le indecisioni, le interruzioni, le soste e gli
intermezzi”. Una sospensione della logica dell’efficienza è necessaria, un
sottrarsi al dominio della ragione strumentale che governa i nostri giorni.
Scrivere, come risulta evidente, è sempre riflettere
sullo scrivere, ad Anghiari. È
recuperare la fiducia, il rispetto delle parole in tempi nei quali sono spesso
piegate ad assumere significati diversi o addirittura opposti al loro. È riconoscere la propria identità in tempi nei quali
essa sembra dipendere da imprecisati quanto aggressivi distinguo fra noi e loro. Nella consapevolezza, sempre, che “la scrittura non salva ma
ripara”, e “rivitalizza l’invito ad esserci, perché “la penna diventa l’oggetto
simbolico attraverso i quale ci si riconnette al sentimento più vasto
dell’arrendersi alla vita”.
L’unico modo per viverla davvero, forse.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Maurizio
Maggiani, L’amore, Feltrinelli 2018
(pp. 200, euro 16)
Sì,
il titolo mantiene quel che promette: disseminato in queste si può rintracciare
un trattato De l’amour, l’amore per
la “sposa” – una moglie c’è, una
sposa la si sceglie ogni giorno. Un
amore che si intreccia a far tutt’uno con l’amore per la vita, un amore per
nulla astratto, fatto invece di quello che la giornata porta, del saper godere
di quello che si ha, del sentirsi parte dell’insieme più vasto delle piante,
degli animali. Senza dimenticare la fragilità di tutto questo, ma senza
lasciarsi avvelenare i giorni dal senso della caducità, perché il “mancare” – di
qualcuno che si amava, di cui si era amici – “è un fatto, una verità” e “mancare
è una buona parola, è l’unico buon modo per spiegare che c’è la morte”. Del
resto, “cosa ne sappiamo noi della morte, niente di niente…”. E allora di vivere,
si tratta, all’insegna di un ottimismo pacato, estraneo ai toni di quello
obbligatorio della pubblicità e dei consumi, fondato invece sulla certezza che
“c’è sempre un buon modo di fare”, che “si può imparare un buon modo per fare
ogni cosa”, e le cose possono sempre “prendere una piega inaspettata e
promettente”.
La scrittura divagante di Maggiani, digressiva nei contenuti e a tratti apparentemente stralunata, è percorsa da un’ironia serena fatta non per prender le distanze ma, al contrario, per esercitare uno sguardo pregiudizialmente empatico nei confronti degli altri, ripercorrere momenti della propria vita, ricordare incontri, amicizie, amori: il tutto nell’arco di una giornata, di una comune giornata, illuminata dalla superiore intelligenza della gentilezza, della bonomia, della pietas, fin che viene sera e si cucina per lei, in ciò celebrando il “sacro” che ancora resta nel nostro mondo.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…”
Francesco Erbani, Non
è triste Venezia. Pietre, acque, persone. Reportage narrativo da una città che
deve ricominciare, Manni 2018 (pp. 232, euro 15)
Vero: non è triste. È disperata. E noi con lei.
Questo viene da pensare leggendo il “reportage narrativo”
del giornalista di “Repubblica”. Che a Venezia esistano – come si illustra nel
primo capitolo – “le condizioni per prefigurare un organismo urbano del futuro”
e che siano presenti nella città occasioni e soggetti che esprimono una
“resistenza” – vedi l’ultimo – non basta a bilanciare la rabbia e la
desolazione che gli altri cinque capitoli suscitano: la Laguna è “maltrattata”,
dopo secoli di sapiente convivenza con i veneziani ridotta a semplice
contorno della città; la quale a sua
volta si è spopolata – innanzitutto per la differenza fra nati e morti – e, coi
suoi poco più di cinquantamila abitanti viene simbolicamente oltre che economicamente
e fisicamente “mangiata dal turismo”. “Una città di crociera” dalla quale non
si sa bene come e quando verranno espulse le grandi navi e è destinata per anni
ancora ad assistere alla tragicommedia del Mose, “scandalo infinito” che ha
attraversato stagioni politiche fra loro diverse.
Dati aggiornati e incontri con intelligenze critiche vive
nella città – a partire da quella di Edoardo Salzano – sono l’opportunità
indubbia che il libro offre. Ma perché dargli quel titolo? Non si può scrivere
se non ci si legittima nell’universo dell’ottimismo obbligatorio?
A quanto pare sì: Se
Venezia muore, si intitolava il libro che Salvatore Settis ha dedicato alla
città (Einaudi 2014).
* Arnaldo Fusinato, L’ultima ora di Venezia (19 agosto 1849)
Jhumpa Lahiri, Dove mi
trovo, Guanda 2018 (pp. 169, euro 15)
Una madre che lascia un biglietto di ringraziamento per chi ha acceso un
lume sulla tomba del figlio: invisibili, sia lei che l’autore del gesto
pietoso; solo due baci sulle guance con l’uomo che potrebbe essere il suo
amante (“Senza dirci nulla sappiamo che, volendo, potremmo avventurarci in
qualcosa di sbagliato, anche inutile”); non una parola all’amica che va da lei
a raccontare i suoi guai (“Non le dico niente, voglio bene alla mia amica, le
permetto di sfogarsi”); lo sguardo del signore che resta in silenzio ma è come
le parlasse (“Non cerca di rassicurarmi, solo di farmi capire che capisce”): si
direbbe siano solo i rapporti che non si realizzano, che non si consumano nelle
parole, a dare qualcosa, a risultare a loro modo significativi. Ma si tratta sempre
di un significato solo intravisto, imminente forse, sull’orlo del quale comunque
la protagonista si ferma, presentendo forse la delusione, l’impoverimento che
deriverebbero dal voler dire, spiegare. E allora meglio contemplare la
dilazione, limitarsi al sospetto della presenza di un senso in quel che accade dove ci si trova, e limitarsi a
descriverlo, godendosi “il piacere di prendere una penna calda in mano
all’aperto e scrivere, magari, due righe”.
E’ fatto di pezzi brevi questo libro, e scritti con una levità che fa
pensare avrebbero potuto in parecchi casi risolversi in poesie. Ma una
narrazione c’è: quello star a guardare le cose che succedono intorno, e fra
quelle anche se stessi, rivela un risvolto di dolore. Mano a mano si procede
nella lettura, quella che era apparsa saggia cautela lascia intravedere una
mancanza, un’incapacità: “I miei colleghi tendono a ignorarmi e io ignoro loro.
Forse mi trovano ispida, scostante, chi lo sa. Siamo costretti a essere vicini,
sempre irraggiungibili, eppure mi sento alla periferia di tutto”. E’ qui, in
una irreparabile periferia esistenziale che davvero si trova la protagonista?
Ed è allora per questo che titola puntualmente i suoi brani con un riferimento
al luogo, alla stagione, alla situazione in cui si trova? Un trovarsi che
non è sinonimo di esserci, ma
piuttosto il frutto di un ininterrotto cercarsi
nonostante la vita si riveli fatta sempre di perdita: “non posso fare a
meno di rimpiangere la mia giovinezza malandata, per niente trasgressiva”;
“riempio la mia agenda, quella che mi compro alla fine di ogni anno sempre
nella stessa cartoleria, della stessa misura e dello stesso spessore. Taccuini
di vari colori che inevitabilmente con gli anni si ripetono: blu, rosso, nero,
marrone, rosso, blu, nero, e così via. Ecco la collana poco variata della mia
vita”; “mi rendo conto per l’ennesima volta di avere un viso che mi ha sempre
deluso. Ogni sguardo mi costa, ecco perché tendo a evitare gli specchi”. Ma non
è solo da se stessa che lei ricava questo senso di desolazione. Anche gli altri
si rivelano soli, ognuno chiuso in un mondo a sé. A partire dalla madre (“Sara
la paura della sua paura che mi ha condotta a una vita così?”), e dal padre
(“Spendere due soldi, comprami qualcosa di bello ma in fondo non necessario mi
ha sempre angosciato. Sarà stato per via di un padre che contava
scrupolosamente ogni moneta prima di darmela?”). Eppure l’esperienza famigliare
non basta a rende conto dell’isolamento che vediamo, che viviamo: “La piscina è
molto grande, ci sono varie corsie e siamo quasi sempre al completo, in otto.
Otto vite separate che condividono quell’acqua senza incrociarsi.”
Qualcuno ha parlato di spietatezza a proposito di questo sguardo sul
mondo, su di sé, sulla propria vita.
Perché non vederci l’impegno che il realismo esige (e l’assenza del punto di domanda in quel Dove mi trovo del titolo testimonia), il coraggio che l’esattezza richiede, la consapevolezza del limite che rivela uno scrivere che vuole tenacemente risolversi nel descrivere?
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“Scrivere un romanzo da solo in una stanza con i propri pensieri forse è la sola maniera di ottenere la massima soddisfazione dai tuoi sforzi creativi. Tutti gli altri modi possono spezzare il cuore.”
Falsi miti. Storie
di migranti oltre i luoghi comuni e le fake news, a cura di Paolo
Beccegato e Renato Marinaro, EDB 2018 (pp. 149, euro 10)
C’è chi lavora in iniziative di
accoglienza, chi insegna italiano a chi non lo parla ma lo deve parlare, chi addirittura
si imbarca sulla nave di una ong che insiste a prestare la sua opera nel
Mediterraneo, ma accanto al volontariato assunto in prima persona, l’impegno a
non ridursi a spettatori degli avvenimenti che ogni giorno i mezzi di
informazione registrano, spesso diffondendo – anche al di là delle intenzioni – un senso di
allarme di fronte alle migrazioni, può imboccare due strade, certo non alternative.
Da un lato, non perdere occasione per contrastare “i luoghi comuni e le fake
news” diffondendo dati realistici e aggiornati. È la via indicata da Stefano
Allievi, per esempio, con un libro minuscolo ma denso, e necessario: 5 cose che tutti dovremmo sapere
sull’immigrazione (e una da fare) (Laterza 2018). Ma si può
anche, abbandonando
il modo di vedere diffuso – che non sa vedere differenze fra etnie, provenienze,
vicende – conoscere quelli, fra i migranti, con i quali possiamo avere una
relazione diretta, e così constatare che ognuno di essi è una persona, con una
storia, una speranza, un progetto. È la via indicataci da scrittrici come Jenny Erpenbeck (Voci del verbo andare,
Sellerio 2016) o Melania Mazzucco (Io sono con te. Storia di Brigitte,
Einaudi 2016), e da questo stesso libro, che riporta “storie
raccolte e raccontate”, in cui “le trame, i luoghi e i personaggi sono veri, ma
sono raccontati attraverso lo stile proprio” di diversi autori”, tutti
impegnati “nel variegato mondo dell’immigrazione”. Si tratta di “storie con al
centro vicende umane, talvolta straordinarie, altre volte assolutamente
ordinarie”: storie, non ragionamenti,
non spiegazioni. Storie, nella
consapevolezza che – lo diceva Jaspers – “si può spiegare qualcosa senza averlo
compreso”, il che può avvenire invece “attraverso il racconto”.
Si risolvono del resto in “narrazioni”
anche i luoghi comuni, le generalizzazioni, gli stereotipi, che crescono
sull’insofferenza di dati e notizie precise, di distinguo e ricostruzioni. E
allora si tratta, forse, di contrapporre a narrazioni false narrazioni vere,
consapevoli che la malafede nasce spesso dalla paura, dall’inquietudine
suscitata da fenomeni che travalicano confini e modi di pensare consolidati, ed
è alimentata dalla diffusione interessata di fake news da parte degli
spregiudicati imprenditori della paura che affollano la scena pubblica.
Storie, dunque, come quelle di Amadou,
“italiano nero che parla un dialetto misto tra lombardo e romano”; di Tiziana,
infermiera trentenne imbracata sull’Aquarius; di Himane, nata ad Atene, la cui
madre Lousa è una profuga siriana bloccata in Grecia dall’accordo fra l’Unione
Europea e la Turchia; di Romeo, “uno dei circa ventimila braccianti agricoli
stranieri che lavorano in provincia di Ragusa”, e di tanti altri.
Storie, per non
limitarsi ad “affrontare il tema solo in chiave astratta o, ancora peggio, in
chiave moralistica”, quando è invece “opportuno – lo sottolinea Oliviero Forti
in conclusione – entrare in dialogo con chi non dispone di tutti gli elementi
per indagare la complessità del fenomeno. Diversamente si rischia la
contrapposizione che, nel peggiore dei casi, diventa contrapposizione
ideologica”.
L’accusa di razzismo trova purtroppo
sempre più spesso appigli concreti e ragioni fondate, ma non può essere
scambiata per una soluzione: è sempre una sconfitta, per entrambe le parti, la
rinuncia al dialogo.
Paolo Cognetti, Senza mai
arrivare in cima. Viaggio in Himalaya, Einaudi 2018 (pp. 112, euro 14)
Sono coppie di opposti a governare il racconto.
Il Nepal e il Dolpo. Il primo, un piccolo paese “in rapido
cambiamento”, “stritolato tra l’India e la Cina, sempre più ridotto a periferia
d’altri”; il secondo, “alle spalle della storia”, una vasta oasi dove gli unici
segni di presenza umana sembrano “le bandierine stracciate che [mandano]
preghiere al vento”.
In realtà, di persone ne incontra, il narratore: alpinisti e
montanari. I primi, personaggi che animano una montagna ormai parte
dell’“immensa megalopoli europea; i secondi, figure di una “montagna
autentica”, non ancora trasformata – differentemente dal Nepal – dalla
modernità, portatrice del “benedetto desiderato benessere” che scalza “una
cultura antica, povera e destinata all’estinzione”, com’è stata anche quella
alpina”. Nel Dolpo la montagna appare invece ancora curata, vissuta, diversa da
quella abbandonata che conosciamo.
Sull’Himalaya, dunque, per pensare alle Alpi, e per
scrivere, e disegnare, questo libro. Per scrivere ma anche per leggere, e rileggere,
un unico libro uscito a fine anni ’70, Il
leopardo delle nevi, di Peter Matthiesen, un libro-guida, ai luoghi e alla
meditazione che essi ispirano. Prima fra tutte quella sull’“ossessione alpinistica
per le vette delle montagne”, sull’“ascesa” come metafora spirituale, quando
“invece il più importante pellegrinaggio tibetano consiste nel compiere in giro
intorno al monte Kailash”: “i cristiani piantano croci in cima alle montagne, i
buddisti tracciano cerchi ai loro piedi”.
Se non lo sapessimo, ci parrebbe di leggere in questo libro la premessa di quell’altro, Le otto montagne: “fa’ che io sappia guardare e fa’ che trovi le parole per raccontare ciò che ho visto”, è la preghiera che il Cognetti himalayano si trova a dire, e ci sentiamo la forza narrativa di quello alpino.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“Vorrei che tutto apparisse meno romanzesco possibile, perché non se ne può più di queste vite da romanzo a cui dovrebbe somigliare anche la nostra. Giorno per giorno passa la vita e basta.”
Oreste Aime, I
camaleonti. Nuovi luoghi del potere, Marietti 1820 (pp. 120, euro 10)
Dopo I Giacobini, i camaleonti, anzi: I grandi camaleonti: dopo Robespierre e Saint-Just, i Fouché, e i Talleyrand; dopo gli ideali della Rivoluzione, il trasformismo della politica. È a quei grandi teleromanzi della televisione di metà anni Sessanta che corre la mente di chi ne fu spettatore da ragazzo. Ma è allo shakespeariano duca di Gloucester, futuro Riccardo III, che l’autore ci rimanda all’inizio del suo saggio, alla camaleontica strategia da lui adottata al fine di “mimetizzarsi sia per evitare gli attacchi sia per attuarli”: è questa figura emblematica il riferimento dell’analisi del potere che ci viene proposta allo scopo di rispondere a due domande fra loro strettamente connesse: che cos’è il potere, qual è la sua natura? e dov’è, oggi, il potere, dove e come si manifesta?
È
innanzitutto l’“ambivalenza” a segnalarsi quale carattere essenziale del
potere, come, in modi diversi, illustrano i due recenti contributi di Simona
Forti e di Gustavo Zagrebelsky, con i quali l’autore si confronta mettendo in
luce da un lato la “domanda sul male nella sua forma di banalità o normalità, dall’altro “il nesso fra potere e libertà”. Se
il riferimento di entrambi gli autori è Dostoevskij, Forti opera una serrata
analisi del “paradigma” proposto dallo stesso sulla scorta di Arendt e
Foucault, mentre Zagrebelsky individua nella Leggenda del Grande Inquisitore “la guida per leggere il presente e
intravedere il futuro”. Un futuro che si presenta come “una forma di
totalitarismo nuovo rispetto al recente passato”, innanzitutto perché capace di
“coincidere perfettamente con le forme della democrazia”.
Una
“prospettiva di filosofia politica per certi versi opposta”, quella di Forti e
Zagrebelsky, essendo la “delimitazione del concetto di potere” da loro operata
“quasi inversa”. Di qui la necessità di allargare lo sguardo su una “mappa
delle questioni che ruotano attorno al potere” che si presenta assai più ampia
e richiede dunque la dettagliata esplorazione che occupa la parte centrale del
saggio e dopo aver definito “concetti, simboli e miti” del potere passa in
rassegna le teorie che nel Novecento ne sono state elaborate producendo
definizioni e descrizioni “talvolta reciprocamente alternative”. In ogni caso,
da mettere ineludibilmente a confronto con l’attuale “crisi delle democrazie”,
le trasformazioni profonde indotte dalla globalizzazione e dalla rivoluzione
informatica, la moltiplicazione dei luoghi della decisione, l’erosione della
sovranità degli stati nazionali, la personalizzazione che sempre più connota il
potere politico, l’aumento delle diseguaglianze, la crescente possibilità di
manipolazione delle persone. E a governare – si fa per dire – questo processo
generalizzato e pervasivo, lo strapotere dell’economia finanziaria e la sua
convergenza con quello – in modo del tutto analogo, programmaticamente privo di
limiti – della tecnica. Quello che si è così costruito è un potere frutto di un
“groviglio di sfaccettature”, assunte e insieme dissimulate, per descrivere il
quale la metafora del camaleonte, nonostante la metamorfosi intervenuta, torna
ad essere “indispensabile”.
La risposta
alla domanda che ci si era posta – dov’è il potere oggi? – a partire dalle
definizioni analizzate e dal bilancio della situazione attuale è dunque alla
fine possibile: “Dall’ambito tradizionale politico, militare, imprenditoriale
si è in buona parte trasferito strutturalmente nella finanza, nella tecnica,
nella definizione dei rischi”, accentuando “il suo lato anonimo e spesso
invisibile”. Lo dobbiamo ammettere: “Viviamo nel tempo di una profonda
rivoluzione antropologica di cui ci sfuggono i contorni e la direzione”.
Solo un “brusco risveglio”, come quello invocato dalla conclusiva
preghiera laica di un poeta polacco, ci può dare la possibilità di misurarci
con “il senso complicato del mondo”.
Marlen Haushofer, La
parete, e/o 2018 (pp. 256, euro 12,90)
Ci sono libri il cui commento potrebbe prendere altrettante
pagine di quelle del testo di cui si intende parlare; romanzi che è facile
sintetizzare, impossibile raccontare.
Una donna scopre, una mattina, che un’invisibile parete,
spuntata non si sa perché, costruita non si sa da chi né a quale scopo, la separa
dal mondo. Di qui la vita continua, la sua e quella di qualche animale, domestico
e selvatico che sia; di là, la morte si è presa invece sia gli uomini che gli
animali, immobilizzandoli come gli abitanti del castello della Bella addormentata. Senonché, tra queste montagne misteriosamente
tagliate in due non c’è una fata malvagia, né si sa se l’incantesimo finirà
dopo cent’anni o durerà per sempre.
In principio è la
parete. Tutto quel che leggiamo consegue da questo evento: come la vicenda
di Gregor Samsa dalla sua trasformazione in scarafaggio, mi ha fatto notare un
amico cui ho regalato il libro: altrettanto inspiegabile di quella, come quella
posta quale assunto imprescindibile della narrazione, e di essa generatore.
E dunque, che cosa succede? Semplicemente che la
protagonista si dà da fare per sopravvivere. Il richiamo a Robinson Crusoe è inevitabile
– ed è richiamato infatti sin dalla quarta di copertina –, ma l’industriosità
del naufrago, la sua borghese intraprendenza, sono altra cosa rispetto alla
tenacia di questa donna, ricorrentemente tentata di riconoscere l’insensatezza
del proprio sforzo; puntualmente ad esso richiamata da loro, dai suoi animali.
Un cane, una mucca e un vitello, e diversi gatti che via via si succedono nel corso
degli anni.
In molti romanzi troviamo, quale motivo centrale, la relazione con gli animali. In nessuno – mi sembra di ricordare – la troviamo raccontata in modo tanto preciso, fine, struggente. Sostanza della storia stessa. Pur non cambiando nulla, o molto poco, nella situazione della sopravvissuta, una storia c’è, infatti, ed è la storia intima del suo atteggiamento nei confronti della vita, degli altri esseri, del mondo, della morte. Una storia della quale, in alcune pagine, si dimentica il presupposto fantastico, e la si legge allora come la storia – ridotta all’essenziale, a quel che in fondo davvero conta – di chiunque si trovi ad attraversare l’esistenza. E sempre, tuttavia, una storia che non consente di cedere alla tentazione di intenderla come grande metafora esistenziale, perché sa mantenere, fino alla fine, la forza di una trama coesa, coinvolgente. Ambigua, più che metaforica. Ambigua, priva di un vero finale che la risolva, e pure capace di far balenare significati decisivi. Come la vita, per chi non cessa di cercarne un senso sapendo che, ammesso ce ne sia uno, solo questa stessa ricerca ne potrà essere attestazione. Discontinua, inconcludente spesso, inconclusa sempre.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“In fondo, uno scrittore è tale solo quando scrive.
Nel senso che deve scoprire ogni volta che si mette a scrivere che cos’è quell’oggetto magico e sfuggente chiamato letteratura.”
Luca Romano, Il
segretario di Montaigne, Neri pozza 2018 (pp. 235, euro 17)
“Agli occhi di un servo nessun padrone rimane per
sempre un eroe”. Quando poi il padrone è chi ha scritto pagine su pagine per
dire sinceramente della propria umana ordinarietà, delle contraddizioni e delle
debolezze dalle quali si sente contraddistinto, la constatazione non può
trovare che ulteriore conferma.
Parla con le parole e ripropone i pensieri dei Saggi il Montaigne di questo romanzo, e il ritratto dell’uomo e del suo stile esce convincente dalle descrizioni del suo improvvisato segretario: “Le frasi che dettava non erano mai definitive, spesso cambiava o aggiungeva qualcosa (…). I suoi discorsi ondeggiavano da un tema all’altro.” E ci dobbiamo credere, visto che a dirlo è colui al quale Montaigne per ben tre anni detta i suoi scritti, per poi scegliere la via del self publishing, sia pure non disdegnando il “privilegio del re”. Ma ecco, conclusa l’opera, l’autore cade in una “profonda malinconia”, e lui lo sa: “Quando si finisce un libro è un sollievo. Il lavoro è terminato. Se poi l’opera trova successo presso il pubblico, ecco alimentato e tenuto in vita più a lungo quel piacere di solito effimero. Ma dopo qualche tempo anche l’orgoglio e la soddisfazione e la vanità perdono consistenza. L’anima gonfia di sé ritorna alle sue estensioni naturali; brevemente incandescente di presunzione, si raffredda altrettanto presto che la brace che si spegne.” In notazioni come questa, oltre che in un intreccio appassionante, sta la qualità del romanzo. Attuale e stimolante, come possono essere i romanzi storici migliori.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Daniel Pennac, Mio fratello, Feltrinelli 2018 (pp. 121, euro 14)
“Le lacrime non c’erano più. Mio fratello arrivava all’improvviso e adesso il mio magone non lo cacciava più via”: a sedici mesi dalla morte di Bernard – un fratello paterno, anche se maggiore di lui solo di qualche anno – Daniel racconta dell’elaborazione di un lutto che all’inizio l’aveva ridotto all’inconsapevole ricerca di seguire il congiunto nella morte. Incidenti, all’apparenza. Distrazioni che potevano rivelarsi fatali. Ma proprio lo star dentro il dolore della perdita, il far sì che si faccia “ospitale”, l’accettarlo “così com’è”, indica la via per “riprendere in mano la situazione”: “mi sono detto che avrei scritto qualcosa su di lui. Su di noi.” E Bartelby, col suo enigmatico preferirei di no, diventa il tramite di una narrazione in cui le pagine di Pennac dialogano con quelle di Melville: era stato il fratello a passare quel racconto a Daniel, ma altro lega la storia dello scrivano alla memoria viva dello scomparso. Un’affinità profonda congiunge l’umorismo che era di Bernard a quello, involontario (?) di Bartleby, ma comune ai due si rivela soprattutto una discrezione confinante con la volontà precisa di sottrarsi agli altri, di fuggire la “confusione del mondo”, un atteggiamento silenziosamente riluttante che si traduce in uno sguardo che non giudica, in una riservatezza estrema dei propri sentimenti: in una progressiva presa di distanza dalla vita, nella sostanza (prima di morire sotto i ferri di un chirurgo, Bernard aveva già rischiato di morire a seguito di un precedente intervento mal eseguito; eppure, ripresentatosi il male, era tornato nella stessa clinica).
E’ nella riduzione del racconto di
Melville a monologo teatrale, nell’impararlo a memoria recita dopo
recita, che Daniel si lascia alle spalle la disperazione senza per
questo rinunciare alla profonda vicinanza con il fratello che non c’è
più: “Bartleby per me era una compagnia che suppliva – inspiegabilmente,
in misura assai lieve, come un’allusione – all’assenza di mio
fratello”. La memoria non diventa ricordo, si mantiene attiva, conserva
il sapore di una relazione essenziale e pure indefinita: “Non so niente
di mio fratello morto, se non che gli ho voluto bene. Non c’è nessuno al
mondo che mi manchi come mi manca lui e tuttavia non so chi ho
perso”. Sono le relazioni che sanno mantenere il senso dell’alterità –
sembra dirci Pennac –, che si alimentano del non detto, e sono in grado
di accettare che l’unicità dell’altro resti inafferrabile, sono queste le relazioni che neanche la morte può sciogliere.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“In realtà il poeta è soltanto un accumulatore di Tempo, conscio che settant’anni di vita distratta dietro agli affari e i traffici e le cosiddette cose concrete può contenere soltanto un minuto primo di Tempo vero, mentre diciotto o vent’anni o trenta di vita vissuta davvero in profondo, possono viceversa contenerne secoli a volte miellenni, nel passato come nel presente e nel futuro, amen.”
Carl Safina, Al di là delle parole, Adelphi 2018 (pp. 687, euro 34)
“Parliamo di esseri umani e animali, come se tutti i viventi ricadessero in due sole categorie: noi e tutti gli altri.”
“Come può l’uomo conoscere, con la forza
della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale
confronto fra essi e noi deduce questa bestialità che attribuisce
loro?” A dispetto dell’“intimità” che
connota il nostro rapporto con diversi animali – cani e gatti
innanzitutto – “conserviamo una tentennante insistenza sul fatto che gli
animali non sono come noi – benché noi stessi siamo animali. Potrebbe
mai una relazione basarsi su un intendimento più profondo?” “Abbiamo
difficoltà a capire gli animali, ma, invece di prendere atto di questo
limite, abbiamo l’impudenza di crederci superiori a loro”. “Può
darsi che noi siamo (…) incapaci di comprendere la ricchezza che altre
specie percepiscono nella propria comunicazione: così come loro sono
incapaci di capire quella della nostra specie”. “Noi
non comprendiamo le bestie più di quanto loro comprendano noi. Esse
potrebbero avere di noi la stessa considerazione che noi abbiamo di
loro. Dobbiamo quindi prendere in considerazione l’ipotesi di una
sostanziale parità e provare a verificarla. (…) Del resto, vediamo in
modo evidente, che c’è fra loro una piena e totale comunicazione, e che
esse si capiscono fra loro, non solo quelle della stessa specie, ma
anche quelle di specie diverse”.
Alcune frasi sono dell’autore di questo
libro; altre di Montaigne. La consonanza è tale che sarebbe difficile
distinguere le une dalle altre e attribuirle correttamente se il
corsivo non evidenziasse quelle di Safina. Non si tratta solo di
riconoscere la straordinaria modernità di Montaigne, ma di ammettere che
sono secoli ormai che abbiamo capito come stanno le cose, fra noi e gli animali.
Sennonché un conto è sapere, un altro è saper di sapere e quindi
regolarsi di conseguenza. I massacri di elefanti in Africa (10 milioni
all’inizio del secolo scorso; 400mila oggi) ci dicono che continuiamo a
fare come non sapessimo. Che cosa? Tutto quello che Safina ci dice
prendendo spunto dall’osservazione di elefanti, appunto, e lupi e orche,
ma allargando il discorso a molte altre specie: lo spirito cooperativo
degli animali, la loro capacità di provare non solo dolore, ma anche
empatia e compassione, sentimento del lutto e felicità del gioco; le
loro abilità comunicative e linguistiche; la complessità delle loro
forme di socialità. Caratteri che altri
autori illustrano con altrettanta precisione, ma forse non così
efficacemente. Perché Safina, al dato di osservazione e
all’argomentazione scientifica unisce la capacità narrativa. Al
comparire di una mandria di elefanti, “la terra cotta dal sole aveva
preso la forma di qualcosa d’immenso e vivo, ed era in movimento. (…) La
pelle, mentre si muovevano, corrugata dal tempo e dall’uso, con le
screpolature impresse dal passare degli anni, quasi che vivessero
avvolti dalle mappe sgualcite della vita già percorsa. Viaggiatori nei paesaggi dello spazio e del tempo.”
“Quando orche e delfini ci vedono spesso
vengono a giocare; noi li salutiamo, e guardandoli negli occhi possiamo
riconoscere che là dentro c’è qualcuno di molto speciale. Là dentro c’è qualcuno. Non è umano, ma è qualcuno…”.
Ed proprio guardando i delfini che seguono la sua imbarcazione, dopo la
meraviglia si chiede il perché dell’insoddisfazione che prova: “Volevo
sapere che cosa stessero provando, e capire perché li percepiamo tanto
interessanti e così… vicini. Questa volta mi permisi di porre loro la
domanda che è il frutto proibito: chi siete?”
Ecco, in questa domanda sta il fulcro del metodo di Safina, etologo e filosofo trasgressivo: perché sa muoversi nello spazio stretto che è rimasto fra il comportamentismo (inaugurato, di fatto, da Cartesio e dalla visione dell’animale-macchina che ne è derivata) e l’antropomorfismo; senza perdersi nella polemica contro il primo, senza cedere alla paura di scivolare nel secondo, ma avendo fiducia nella propria empatia nei confronti degli animali riconoscendone allo stesso tempo la diversità, fra di loro innanzitutto e, dunque, anche fra ciascuna specie e la nostra. La strada maestra è quella indicata da Henry Beston, citato in esergo (e in questi giorni in libreria con La casa estrema. Un anno di vita sulla grande spiaggia di Cape Cod, Ponte alle Grazie 2018): “l’animale non ha la sua misura nell’uomo. (…) Non sono nostri fratelli, non sono nostri sottoposti; sono altre nazioni, catturati insieme a noi nella rete della vita e del tempo, prigionieri con noi dello splendore e del travaglio della Terra.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Benjamin Gross, Un momento di eternità. Il sabato nella tradizione ebraica, EDB 2018 (pp. 206, euro 19,50)
Lo shabbat: “il contributo più importante che l’ebraismo ha portato all’umanità”, avverte inapertura Benjamin Gross. Per tutta l’umanità, per ebrei e non ebrei, per credenti e non credenti. E lo stesso si può dire per questo libro del grande pensatore ebraico scomparso tre anni fa. Chi, infatti, ha una conoscenza soprattutto letteraria dell’ebraismo e delle sue pratiche trova in queste pagine le nozioni necessarie per tradurre le suggestioni che gli sono venute dalla lettura di romanzi e racconti in riferimenti filosofici precisi, in rimandi essenziali al grande racconto biblico e al significato profondo che si manifesta nel rito delle festività del calendario ebraico. Ma, quel che più conta, trova anche lo spunto per riflessioni che lo riguardano, perché rappresentano una critica stringente della concezione del tempo che domina il nostro mondo. Una concezione disposta a riconoscere la necessità di un giorno di riposo settimanale, non fosse che già l’espressione, giorno di riposo, richiama l’immagine della saracinesca abbassata di un pubblico esercizio, e dunque la sensazione che sia un significato puramente utilitaristico quello che si attribuisce all’interruzione del lavoro (sempre che, di questi tempi, non finisca col prevalere l’imperativo alla continuità dei consumi in untempo del tutto indifferenziato, come il dibattito sull’apertura domenicale di negozi e centri commerciali fa presagire).
E’ su questo sfondo, a confronto con questa mentalità diffusa, che risalta la concezione dello shabbat,occasione per ricordare che “C’è un tempo fuori dal tempo abituale, totalmente altro, che è un riferimento per la coscienza di fronte allo scorrere incessante del tempo.” Non ci troviamo di fronte, semplicemente, a un invito giudizioso a rallentare il ritmo delle nostre giornate, né solo all’offerta di un espediente per lenire il dolore – del quale si può essere più o meno consapevoli – cheappunto lo scorrere del tempo genera. L’osservanza dello shabbat, l’astensione dal lavoro non in quanto faticoso ma in quanto espressione della volontà di lasciare un segno nel mondo, coincide con il riconoscimento di un limite, e rappresenta perciò la via per mettere a fuoco un impegno decisivo, essenziale, senza il quale la nostra umanità è sviata, la nostra vita mancata: l’impegno a coltivare la capacità di vedere una dimensione della realtà, degli altri, di noi stessi, che non si esaurisce in ciò che lo sguardo ordinariamente ci offre, che non si risolve nell’esteriorità e in un presente che rende superfluo il passato e non sa immaginare il futuro. Un impegno non effimero ad ammettere il bisogno di un senso, di un’ulteriorità, di una trascendenza immanente, operante, ravvisabile qui e ora; un impegno a non cedere all’insensatezza che pervade il nostro essere sociale, a non proiettarla sulla nostra intera esistenza: non si è gettati nel mondo; si è parte, per quanto infinitesimale, di una storia nella quale dimensione cosmologica e dimensione umana si integrano. Non si nasce da se stessi, ma da “persone che non sono come le altre”, i genitori: persone “che l’individuo non ha scelto, ma alle quali è indissolubilmente legato” perché è da loro che proviene la coscienza di essere, tutti, anelli di una catena, parte di una storia, creature chenon possono prescindere da un rapporto che, come quello di filiazione, permette di cogliere la propria umana natura.
Le acquisizioni della fisica, dell’astrofisica contemporanea soprattutto, così come gli orizzonti del pensiero ecologista balenano qui e là in un discorso capace di attenersi al tema che si è dato ma anche di misurarsi con la realtà dell’oggi, con il nichilismo più o meno esplicito che circola nella società e pervade le vite, con l’“indifferenza” e l’“irresponsabilità nei confronti della dimensione sociale”, con la perdita della “nozione fondamentale del limite”. E’ in questo confronto serrato che emerge un’innegabile “tensione tra lo spirito occidentale e l’esistenza ebraica” in quanto testimonianza – nei suoi principi fondamentali, in quello dell’osservanza dello shabbat in primo luogo – della possibilità, per “un mondo disorientato”, “di ritrovare il soffio di una vera vita, che non sia né abbandono alla materialità, né evasione in un idealismo astratto”, sull’onda di un sentimento di nostalgia e insieme di speranza. Nostalgia e speranza: i due volti di un identico bisogno che definisce il nostro essere uomini, incapaci di rassegnarci a una vita senza significato, attraversati da un senso di perdita e allo stesso tempo da una tensione inestinguibile verso un mondo nel quale la serenità dello shabbat si estenda agli altri giorni, a tutti quelli che ci è dato vivere.
“E’ impossibile descrivere i fatti, anche quando lo si fa senza alcuna ambizione letteraria; si è sempre obbligati a inventare, più o meno.”
(Michel Houellebecq)
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