Marco Lodoli, Il fiume, Einaudi 2016 (pp. 101, euro 14,50)
Domenico Starnone, Scherzetto, Einaudi 2016 (pp. 167, euro 17,50)
Alain Gillot, Una scacchiera nel cervello, edizioni e/o 2016 (pp. 190, euro 16,00)
Un padre, un nonno, uno zio. Tutt’e tre costretti a un inaspettato serrato confronto con dei ragazzini: il figlio decenne di una coppia separata, il primo; il figlio quattrenne della propria figlia, rimasta a Napoli, mentre lui, il nonno se ne sta da anni a Milano; il figlio tredicenne d’una sorella con cui aveva interrotto i rapporti, il terzo.
Il padre di Damiano – nel romanzo di Lodoli – si occupa di negozi in fallimento. E’ un uomo tranquillo, a suo modo: “tutto bene” è il suo intercalare, “bisogna mantenere il controllo” il suo mantra. Ma una domenica che passeggia col figlio sulla riva del Tevere, quello casca in acqua, e lui resta a guardare, non sa buttarsi. Uno sconosciuto si tuffa, salva il bambino, poi scompare. Tutto bene, direbbe il padre, se il ragazzino non insistesse per ritrovare il suo salvatore: “Bisogna ringraziare quell’uomo”. Di qui in poi, il racconto fa a pensare a quei film intitolati Tutto in una ,notte o giù di lì: mentre Damiano dorme sul sedile posteriore, suo padre corre per la città, attraverso luoghi che gli ricordano la sua infanzia, la sua giovinezza e lo costringono a ripensare alla propria vita, e intanto si caccia in situazioni assurde, surreali, ognuna capace tuttavia di fornirgli qualche indizio per trovare quell’uomo. Perché la vergogna di non essersi, lui, gettato nel fiume a riprendere il figlio non gli dà scelta: Damiano gli ha chiesto di rintracciare il suo salvatore, e lui glielo deve. E il bello è che, pur dormiente, il figlio dialoga col padre: “Dormi Damiano?”, “Sì, papà”, “Ti fidi ancora di me, Damiano?”, “Non lo so, papà”?, “Ringrazierò quell’uomo, vedrai. (…) Prima dell’alba lo troverò, te lo prometto”. “Sì, papà”. E via a correre da una periferia all’altra: “stanotte non devo fallire, mio figlio non potrebbe sopportarlo”. Ma questo viaggio al termine della notte si fa sempre più, per quest’uomo, riconsiderazione generale di se stesso. Non è avvenuto solo quel giorno: lui non si è mai gettato, è sempre stato “uomo di riva, di trepidi sguardi e fantasie inutili”. L’approdo non può che essere la constatazione amara che “si parte dalla vergogna di ciò che si è e si prova a dimenticarla durante il viaggio, ma la vergogna resiste, accompagna, precede”: il fallimento è già all’inizio. Eppure… Eppure è stato un sogno, gli assicura Damiano: “tu sei arrivato e mi hai salvato”, e a lui, al padre, non resta che guardare il fiume “come una storia che ha una direzione ma non un senso che gli uomini possono davvero comprendere.”
E’ un illustratore, un artista, l’anziano signore creato da Starnone. Famoso un tempo e ora in declino, di salute malferma, e comunque costretto a constatare che “più si invecchia, e più si tiene a restare vivi”. Cede a malincuore alla preghiera della figlia, ricercatrice universitaria come il marito: un convegno li chiama all’estero una decina di giorni, il piccolo non può restare da solo. E così il nonno torna nella casa napoletana dov’era vissuto, abitata dai fantasmi dei suoi genitori, traversata dalle tensioni tra figlia e genero. Ma da subito è Mario a imporsi, a non lasciarlo lavorare alle tavole che deve consegnare al suo editore. Lui, pur da tempo in età di pensione, non sa vivere privo di “urgenze lavorative” e attorniato dal “consenso”, dei critici, del pubblico. Ma ora è con altro che deve misurarsi: il nipotino lo obbliga al confronto, anche sul suo terreno professionale. Disegnano insieme, e Mario ritrae il nonno: “Aveva disegnato me, riconoscibilissimo, me adesso, me oggi. E tuttavia sprigionavo orrore, ero davvero il mio fantasma. (…) Mi sentii come se avessi ricevuto uno spintone così violento da mandarmi dal centro ai bordi del mondo.” Hanno fraternizzato, e di scherzetto in scherzetto sono arrivati a questo gioco del ritratto, che il bambino vorrebbe distruggere, ma il nonno no, perché quel disegno “gli aveva tirato via l’idea che aveva di se stesso”. Sarà l’ennesimo scherzetto – quando Mario non trova di meglio che chiuderlo sul balcone, sotto la pioggia – a costringerlo a un consuntivo senza sconti della sua vita, e alla disincantata conclusione che “viviamo per tutta la vita come se il nostro continuo misurare e misurarci rimandasse a una verità inconfutabile; poi in vecchiaia ci rendiamo conto che si tratta solo di convenzioni, tutte sostituibili in ogni momento con altre convenzioni, e l’essenziale è affidarsi a quelle che ci sembrano di volta in volta più rassicuranti.”
Bilanci esistenziali, giudizi impietosi su se stessi nei due romanzi italiani. Nulla di tutto ciò in quello di Gillot: non che il quarantenne allenatore di squadrette giovanili di provincia sia soddisfatto di sé. E’ un uomo solo, che non ha dimenticato le mancanze dei genitori e non li ha perdonati, un uomo sempre sulla difensiva, convinto che credere alle illusioni sia pericoloso, ma che tutto sommato ha trovato un suo equilibrio. Non chiede molto alla vita. Men che meno agli altri. Ma ecco la comparsa di un essere diverso da tutti: un nipote che incontra per la prima volta, e che non parla, non ti guarda negli occhi, gioca – da solo – a scacchi. Non fa altro. Salvo mettere alle strette lo zio con una frase sibillina: lui, lo zio, non gioca a scacchi, gli spiega, perché ha paura di non capire, e il calcio, che è tutta la vita di quest’uomo, è troppo semplicistico, per il nipote. E qui si apre il confronto: lo zio gli sottopone decine di videoregistrazioni di partite. Senza una parola, il ragazzo le guarda, le analizza, le decifra nelle loro ricorrenze statistiche: un modo per stabilire un rapporto con questo fino allora sconosciuto fratello della madre. In campo, il tredicenne altrimenti lento e goffo, si rivela un portiere d’eccezione: prevede le mosse degli avversari come si muovessero sulla scacchiera. Non tutto fila liscio però: il ritorno di quella disperata di sua madre, la reclusione del ragazzo in un istituto dove la sindrome di Asperger di cui è portatore degenera in comportamenti asociali, la ricomparsa e la morte della nonna… Quel che vien fuori è che se c’era qualcuno davvero chiuso al mondo, deciso a sfuggire il confronto con i propri simili, non era il ragazzo, Léonard, ma lo zio. Sarà la presenza discreta e affettuosa della dottoressa che ha diagnosticato il lieve autismo di Léonard ad aprire la strada a un finale lieto ma non zuccheroso. Ironico e dolce piuttosto. Come in un film francese.