Olivier Bourdeaut, Aspettando Bojangles, Neri Pozza 2016, pp. 142, euro 15
Aspettando, En attendant. Ma non Godot: Mister Bojangles invece, il ballerino di tip tap che teneva allegri i suoi compagni di cella nella canzone del 1968 interpretata, fra gli altri, da Nina Simone: è la sua voce ad accompagnare dall’inizio alla fine padre, madre e figlio protagonisti del racconto.
Tre personaggi in attesa, sì, ma solo di nuove avventure, e feste soprattutto, che realizzino il senso della loro vita. Perché l’han capito, loro: la vita si vive qui e adesso e dunque tanto vale cavarne il meglio, subito. Il ruolo della guida, in questa pratica frenetica e spensierata, è assolto dalla madre, creativamente seguita dal marito: divertire, stupire il figlioletto è il loro criterio educativo. Interpretare la vita come un romanzo e se stessi come personaggi è la loro bussola esistenziale, per cui il padre “si inventa vite da spacciare” a chi lo ascolta, la madre cambia ogni giorno nome secondo il gusto del consorte e tratta il figlio “né da adulto né da bambino, ma piuttosto come un personaggio da romanzo”, appunto: “un romanzo che lei amava molto, nel quale si immergeva ad ogni istante. Non voleva sentir parlare né di grattacapi né di tristezza”. Qui sta il punto: la condotta sostanzialmente demenziale di questa famiglia è una sorta di gioiosa protesta nei confronti della seriosità, del dovere, del lavoro. La stessa felicità che inseguono con determinazione non s’aspettano che si stabilizzi: occorre rinnovarla escogitando trovate e organizzando banchetti, bevendo ininterrottamente cocktail e ascoltando lui, Bojangles.
C’è la visionarietà di Queneau, in questo romanzo, ma anche l’inventiva di Dickens: come spesso accade nei suoi romanzi la voce narrante è quella del bambino, e l’altra che interviene è la voce di un adulto, il genitore, che sembra a tratti condividere lo svagato buon senso, la stravagante probità del Wilkins Micawber di David Copperfield.
Romanzo sorridente, ma solo in apparenza. Nell’euforia incontenibile della protagonista si fa strada la tristezza, e infine la follia, e il marito si dovrà infine rassegnare a non essere più “l’imbecille felice che aveva sempre pensato di essere” e seguirà l’adorata compagna nella morte. Non prima però di aver lasciato al figlio i quaderni in cui aveva annotato “tutta la loro vita come in un romanzo”, scrivendo “i momenti belli e quelli brutti”, senza tralasciare nulla, tanto da offrire all’erede la “sensazione di rivivere tutto una seconda volta”.