Diversi sono gli episodi e le situazioni da cui prendono spunto questi racconti, pensosi alcuni, altri venati di umorismo, ma percorsi da un tratto comune, rappresentato dall’atteggiamento di chi vi è coinvolto. Nessuno dice niente, per ragioni diverse: banale conformismo, o ritegno prudente; reticenza o indiff erenza, vera o apparente che sia.
Un non voler vedere, un non voler sapere: una scelta di diniego se non di rimozione, che si risolve comunque nell’astenersi dal prendere posizione, dal passare a un intervento attivo. In questo contesto, maturano però anche altre scelte, dettate da attitudini discrete alla separatezza, da private secessioni, da progressive adesioni alla pratica di un silenzio che non è assenza, né rinuncia alla parola. Un silenzio che somiglia a quello degli animali.
Sono i narratori che via via compaiono in questi racconti, essi stessi coinvolti nelle vicende che riferiscono, a dover constatare l’emergere di questa generalizzata e diff usa propensione a chiamarsi fuori, o comunque a tacere, e a farvi in qualche modo argine contrapponendo il loro bisogno di rendere testimonianza di quanto accade.
È proprio la loro incapacità di allinearsi a quella sorta di omertà volontaria che sembra pervadere i comportamenti collettivi a fornire un’occasione essenziale e a off rire una motivazione di fondo alla scrittura.
Perché scrivere – lo ricorda Maria Zambrano – “è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento eff ettivo, ma comunicabile”.
Quelle che seguono sono le pagine iniziali di alcuni dei racconti.
Pappataci
Guarda… una cosa mai successa. Ero lì che stiravo. Tutt’a un tratto ho sentito… come un prurito, ma fortissimo: un bruciore, ecco. Come una scottatura, ma da grattarsi, da non farcela più a star fermi. Ho dovuto metter giù il ferro da stiro: sulla gamba era, dietro il ginocchio, che sai che se c’è un posto brutto quando ti pungono le zanzare… be’, una roba che… mi sono seduta e ho cominciato a grattarmi che non la finivo più… sì, certo che lo so, figurati: ero io a dirtelo sempre, ti ricordi? lascia stare, non grattarti che se no è peggio. Ma questa era un’altra cosa: da non resistere, ecco. Sì, due o tre segni rossi, appena un po’ gonfi, niente di speciale, semplici tossole a guardarle. Eh no, è questo il fatto: che qui di zanzare non ne abbiamo mai avute, tant’è vero che non abbiamo mai avuto in casa niente… non so, zampironi, o spray… Ah sì? A te era capitato quando andavi a caccia col papà? Be’, però lì eravate nell’umido, si capisce che c’erano zanzare e roba del genere, ma qui… No ti dico, non ne ho viste: è questo il fatto. Di zanzare neanche l’ombra… Ma no, figurati se sono andata nelle ortiche… a fare? Sì, va be’, ciao, sì, andrò in farmacia a prendere qualcosa… ciao… ciao…
Come al solito ho messo giù il telefono tirando un sospirone, di sollievo e di rabbia anche. Se non la liquidavi, a un certo punto, lei era capace di andare avanti ore con una telefonata, anche quando non aveva niente da raccontare. Come adesso: mezz’ora perché un insetto l’aveva punta! Che palle! Ma del resto, se non le ho fatto la telefonata giornaliera… è come se non mi sentissi a posto. Hai bisogno di soffrire, mi dice Mara. No, dico io: si deve prevenire il rimorso, inutile dire, dopo: pensare che quando c’era non le telefonavo mai povera mamma e cose del genere.
Stanotte mi sono svegliato di soprassalto: l’alluce destro, sul lato interno. Mi ero sognato che camminavo sui sassi e mi facevano male. Invece nel sonno mi ero grattato, un piede contro l’altro, e adesso non ce la facevo a star fermo. Mi giravo, mi rigiravo. Cercavo di non grattarmi più. Mi son messo un po’ di saliva dove mi prudeva di più, ma non serviva a niente. Stavo svegliando anche Mara col mio agitarmi. Allora mi sono alzato, sono andato in bagno: niente, un piccolo rossore. Solo quando sono stato lì, a guardarmi l’alluce alla luce del lavandino mi è tornata in mente la telefonata di mia madre. Vuoi vedere che… Ma no. Lei è in città, a trecento chilometri da qui, nel caldo della città. Qui siamo al fresco, in montagna… Eppure…
Neanche l’acqua fresca mi dava sollievo. Ho cercato di distrarmi. Ma cosa volevi fare lì, in una camera d’albergo? Tornare a letto, al buio, neanche parlarne, con quel tormento. Ho preso il giallo che avevo iniziato e mi sono seduto sul water chiuso, a leggere. Ogni tanto il piede nel bidè, sotto l’acqua. Ma non mi passava neanche così. Sono rimasto in piedi due ore prima di poter tornare a stendermi e addormentarmi.
E’ cominciata così, per quel che mi ricordo. E non è più finita. Ma non è sempre andata allo stesso modo. Allora, nei primi tempi, e ancora per un bel po’ dopo, non si faceva che parlarne. Tutti ne parlavano, o ne scrivevano: i giornali, le tivù. Adesso no. Non è che sia vietato, ma…
Allora sembravano tutte coincidenze, casi strani, accaduti solo a te, e dunque volevi saperlo se erano capitati proprio a te soltanto. Spiacevoli, certo, ma più che altro roba da far due chiacchiere, un po’ come il tempo e le stagioni. Era tutto un ma pensa te, ma non dirmi, sai che anch’io eccetera.
Poi sono cominciati i pareri degli esperti. Primi gli entomologi naturalmente: eravamo diventati tutti esperti delle diverse famiglie di pappataci, una parola che avevo già sentito ma che non avevo mai usato: mi sembrava goffa…
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La bufera
Si guardano negli occhi. Non s’era mai accorto che l’asino ha gli occhi così distanti, ai due lati del muso: adesso che ce l’ha proprio di fronte vede che sporgono, a sinistra e a destra. Eppure, anche se messi in questo modo, lo guardano fisso.
Gli occhi, dell’asino, nei suoi. I suoi in quelli dell’asino.
Stava passando, a testa bassa, e non si era accorto. E’ stato l’asino a venir giù per il prato, di corsa. Ha raggiunto il filo spinato nel punto dove era arrivato lui in quel momento, e ha fatto il suo raglio. Quell’urlo appena tentato che poi, nel sentirsi, sembra si perda d’animo e finisca in quel resto di grido sconsolato che suona come una rinuncia, quasi che l’asino si fosse una volta di più convinto che non è il caso di continuare, né di riprovare.
Ogni raglio di asino sembra l’ultimo. L’ultimo tentativo, una prova cui ancora una volta non ha saputo resistere ma che non farà più.
E’ stato dopo, che sono rimasti lì a guardarsi negli occhi. Dopo il raglio e dopo che l’uomo è salito di un passo sulla proda e tenendosi a un paletto del filo spinato ha raggiunto con la mano la fronte dell’asino e ce l’ha tenuta un momento.
Adesso sono lì uno di fronte all’altro. Fermi. Passano almeno due o tre minuti prima che l’animale distolga lo sguardo.
L’uomo sente che ha fatto male. Non doveva insistere, doveva smettere prima lui di guardar fisso negli occhi l’asino. Ma è andata così.
Gli dà ancora un carezza. Nota che è un asina, non un asino.
Le dice arrivederci, ad alta voce.
Poi riprende a salire, ma sente i tonfi degli zoccoli dell’animale che lo seguono: cammina poco dietro di lui, lungo il sentiero che le sue zampe hanno scavato parallelo alla strada, appena di là del filo spinato.
L’uomo, quando arriva all’angolo dove la recinzione finisce, si impone di non girarsi a guardare l’asina. Sa che è là che lo guarda andarsene.
E’ una cosa che conosce e non sopporta. Lui che se ne va e qualcuno che lo guarda andarsene, e il cuore che gli si fa pesante della pena di quell’andare. Come se fosse, nello stesso tempo, quello che se ne va ma anche quello che rimane e guarda l’altro allontanarsi.
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San Rocco
Anche la mia è una casa uscendo dalla quale, al mattino, si può decidere se andare da una parte o dall’altra.
La mia come tutte le altre case, si potrebbe osservare. In realtà, ce ne sono che non si possono dire di questo genere. Ne ho abitato alcune dalle quali si usciva per andare sempre e soltanto da una parte. Quella stessa in cui sto la maggior parte del tempo, in città, è una di queste. Essendo ai margini del centro storico, è verso quello che invariabilmente portano i passi. Si può anche prendere dalla parte opposta, naturalmente, ma è solo un diversivo: alla prima traversa si torna dalla parte che si era creduto di non aver scelto quella mattina.
L’altra casa, quella di cui dicevo all’inizio, si trova invece in un piccolo paese, uno dei cinque o sei che stanno sul monte sopra il lago. Non ce n’è uno più importante dell’altro, anche se ognuno si ritiene il migliore, per il panorama di cui gode, o la tranquillità che vi regna, o per le sue vie lastricate più di recente, o ancora perché – unico fra tutti – ha un ufficio postale.
In realtà – per me almeno, che non sono nativo del luogo ma ospite, o tale mi sento, anche se vi abito per qualche mese all’anno da più di un trentennio – più dei paesi sono altri i punti di riferimento. Quando si esce, al mattino, si può decidere, come dicevo: se andare dalla parte di San Valentino o da quella di San Rocco.
Si può, ho scritto. Ma, a dire il vero, certe mattine si deve.
Ci sono giorni nei quali si sa quel che si vuole. O meglio: si fa, si va. Senza bisogno di volerlo. Altri, invece, nei quali l’obbligo di scegliere si presenta di continuo, importuno, e quando, perplesso, scegli, è come se un altro l’avesse fatto al posto tuo. Giorni nei quali una cosa equivale all’altra, e allora tanto varrebbe non farne nessuna. Ma appunto questa è l’unica scelta che appare inammissibile.
E allora esco, ma ancor prima di raggiungere il cancellino mi rendo conto che non so da quale parte prenderò. Sono ormai sulla soglia e continuo a non saperlo. So solo che non potrò avviarmi da una parte, poi ripensarci e tornare sui miei passi. Quello no. Non so perché, ma sento che quello sarebbe passare il segno, un’eventualità di cui non saprei valutare le conseguenze.
E’ un istante quello in cui la sospensione si risolve in decisione. Un istante tanto breve, infinitesimale, che nessuno che fosse lì a osservarmi potrebbe cogliere un’ombra d’incertezza. Tanto breve, del resto, che neanch’io potrei dire con sicurezza di aver deciso.
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L’aquila
Una course ha detto: venerdì facciamo una course, indicando dietro di sé, oltre la finestra, le montagne che chiudono la valle. Dolomiti all’aspetto: campanili e sfasciumi di roccia, solcati da rare lingue verdi di erba aggrappata al terreno quasi verticale.
Una course. Col mio poco francese ho chiesto la differenza con la promenade, la bonne promenade che mi auguravano quando mi vedevano andare a far un giretto fino alla sorgente della Clarée, un’ora di cammino, o su al rifugio della Buffere, poco di più. E la differenza con la balade: si erano complimentati con me due giorni prima per la balade che avevo fatto, da solo. Sei ore. Lo chemin de ronde del monte Thabor, che partendo in alto sopra i loro tre chalets – baite, diremmo noi, che loro avevano riadattato – arriva fino in fondo alla valle, sotto a quelle rocce che sembrano via via spostarsi, l’una nascondendo l’altra e lasciandola poi riapparire, per restare comunque sempre inarrivabili, al di là del confine dei luoghi fatti per gli uomini.
Ecco: una course era andare là, su quelle rocce. Non una passeggiata come la promenade o una gita come la balade. Una course era di più. Era un’ascensione.
Mi sono subito reso conto, già mentre cercavo le parole per fare la domanda, che quella mia curiosità lessicale non era che un modo per differire un cortese ma fermo no. No: non è cosa per me. Magari un’autoironica ammissione dei miei limiti, o – perché no? – della mia paura: mi era sembrata questa la strada quando Marie, la moglie di Albert, aveva buttato lì un cauto mais… le vertiges: lei c’era andata lassù, col marito. Fino a pochi anni prima l’aveva accompagnato sempre, prima di rinunciare alle courses, e poi anche alle balades.
Lui però non ha raccolto, come si trattasse d’una obiezione tanto futile da non meritare neanche un cenno di risposta, e non m’ha dato tempo di confermare che sì: io soffro di vertigini e dunque…
Ha invece continuato in quel che stava dicendo, lasciando anzi il suo tono pacato e dimenticandosi di parlar lentamente, come faceva di solito, in modo da farsi capire anche da me, perché Francesca, mia moglie, il francese lo parla bene, ma io no.
Di quel che diceva ho colto solo un hors du sentièr, accompagnato dal gesto del braccio e della mano tenuti quasi a novanta gradi, e mi era sembrato un po’ sinistro il suo sorriso nel dire di questo andar fuori dal sentiero per arrampicarsi su pendii che era facile immaginare quanto ripidi anche solo guardandoli da lontano.
E cos’è successo? E’ successo che ho detto va bene. Non gli ho detto che lo ringraziavo della fiducia ma là non ci andavo, non me la sentivo di andarci. E non è che non l’ho detto solo perché per me era difficile da dire in francese, una roba del genere.
Ma cosa gli era saltato in mente di propormi, anzi, di decidere, un’impresa del genere? Lui stesso era qualche anno che non ne faceva di simili… E cosa diavolo mi aveva impedito di tirarmi indietro?
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Racconti a Parigi
La domenica, la domenica pomeriggio, si vede chi è solo e chi no. O meglio: chi vive solo e chi vive con una moglie, con dei figli. Il che non implica necessariamente che sia solo, o che tale si senta.
Le persone sole, nei giorni feriali, camminano come tutti gli altri. E come tutti gli altri guardano davanti a sé. Verso una loro meta. La casa, il lavoro, un impegno preso in un certo posto con una certa persona. La domenica pomeriggio, invece, camminano lente, e si guardano in giro. Guardano attente – come a studiarli, a cercar di definire una differenza decisiva – quelli che non sono soli, o che tali non appaiono.
Anche questi ultimi camminano lenti, a differenza che nei giorni feriali, ma guardano avanti a sé, anche la domenica, non però verso una meta. Guardano avanti ma come non vedessero, o come se avessero già visto tutto. Un po’ come i ciechi, che non vedono niente, o non hanno mai visto niente, se ciechi dalla nascita, o vedono, a loro modo, qualcosa di completamente diverso da tutti gli altri. Che magari non è come non vedere niente.
Quelli che vanno a passeggio con la famiglia non mostrano attenzione. Tutt’altro. Sono distratti. Distratti da un vuoto che, a differenza di chi è solo, non possono immaginare di riempire.
Chi è solo può essere triste. Chi non è solo, ma tale si sente, no. E’ distratto, appunto Se è triste, non lo sa.
Mica male. Non importa se è vera questa cosa delle persone sole e non sole. Vorrebbe scrivere tutti pezzi così. Brevi. Semplici. Che però danno l’idea che sa vedere quello che c’è intorno.
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Racconto n° otto
Stamattina, come ogni mattina, s’è svegliato poco prima delle sette.
E’ rimasto a letto una mezzora, ma non per cercare nei sogni di quella notte qualcosa di utile per i suoi racconti. Più di una volta gli era accaduto che aprendo gli occhi addirittura un’intera storia si fosse formata durante la notte nella sua mente, nella forma d’un sogno già disposto in modo da essere trascritto. O almeno si era ritrovato con uno spunto: il sogno gli aveva portato una figura, una voce, un luogo, e sempre, ad accompagnarli, un senso di consolazione o di disgusto. Niente mezze misure: conforto o nausea. Senza un perché. Ed era capitato che cercare quel perché diventasse scrivere un racconto.
Ancor prima di alzarsi trascriveva allora sui suoi foglietti – ne teneva ovunque, anche sul comodino naturalmente, o più spesso sul letto stesso, dalla parte lasciata vuota dalla moglie – quel che aveva in testa, poche parole, spesso nella forma di un incipit, e solo dopo, magari non quella stessa mattina, gli riusciva di farne nascere qualcosa. Era, questa dei sogni, una risorsa di cui si era compiaciuto di parlare in pubblico, anche durante le presentazioni dei suoi libri, e s’era accorto che faceva sempre effetto. Creava un ponte fra lui e chi ascoltava – tutti dormono, e sognano – ma nello stesso tempo sottolineava la sua diversità, l’unicità del suo talento. Solo lui sapeva mettere a frutto quel che il sonno portava anche agli altri.
Non cerca più, da parecchio tempo, fra i brandelli di sogni che gli restano. Non fanno a tempo a comparire e già gli si squagliano nella memoria. Neanche brandelli. Sensazioni. Sogna ma è come non sognasse più. Le benzodiazepine arruffano i pensieri della notte e li fanno d’una materia densa e viscida, grigiastra, che si disperde alla prima luce.
Non dormire più non era meglio, del resto. Oltre a non sognare si ritrovava poi a cadere da un pisolino all’altro durante il giorno. La testa vuota fra uno sbadiglio e l’altro. Del tutto sprovvisto di quella fiducia benevola, verso di sé, senza la quale non si può scrivere nulla, neanche pensare di poterlo fare. Neanche desiderarlo.
Ordini
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Recensioni
Dal Giornale di Brescia dell’8 giugno 2015.
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Da Bresciaoggi del 3 ottobre 2015.
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Dal Corriere della Sera del 10 ottobre 2015.
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