È domenica, ma si sveglia prima dell’alba: non un incubo o l’insonnia, ma un’indistinta voglia di fare spinge Ezio ad alzarsi nella casa ancora buia, dove la moglie e la figlia dormono. Si limita a sfogliare qualcuno dei volumi che ha tolto dalla sua libreria e accatastato sul tavolo, per riordinarli e soprattutto per disfarsi di quelli che da anni non prende in mano.
È una di quelle domeniche destinate alla visita ai suoceri che abitano sul lago: un breve viaggio in treno, il pranzo, i soliti discorsi e poi il ritorno. Ma non sarà come le altre: Giacomo, il padre di sua moglie, che col tempo gli è divenuto amico, è malato. Sta vivendo i suoi ultimi giorni.
Non eventi imprevisti, ma riflessioni, ricordi, intuizioni che attraversano la mente di Ezio fanno di questa domenica una sorta di spartiacque nella sua vita. Ed è nella scrittura, nella decisione di scrivere della giornata appena vissuta, che il protagonista individua una via per introdurre un cambiamento decisivo nella propria vita. Una vita segnata dalla riluttanza a coincidere pienamente con la propria condizione, dalla tendenza a immaginare altri destini sull’onda di un desiderio sempre proiettato in un indefinito domani.
Quelle che seguono sono alcune pagine nelle quali compaiono temi ricorrenti nel romanzo: il destino dei libri accumulati per decenni, il rapporto con la dimensione pubblica e la politica, ma soprattutto il pensiero della morte, e del proprio rapporto con il Tempo.
[…]
Comprava uno due libri quasi ogni settimana.
Tornare a casa con un paio di libri nuovi da spiluccare prima di andare a letto lo faceva star bene. Tanto sapeva che avrebbe letto tutto.
Non riusciva a tener dietro ai suoi acquisti. Ma avrebbe letto tutto.
È difficile però leggere un libro dopo tanto tempo che lo si è comprato. Averlo tenuto in casa per anni, al suo posto, insieme agli altri dello steso autore o che trattano della stessa materia, ti dà l’impressione di averlo letto. Forse, gli viene da pensare adesso, ma senza far sul serio, potrebbe eliminare tutti i libri che non ha mai letto. Ma allora perché non quelli che ha letto? Come quel tale, che all’idraulico che gli era venuto per casa e guardando la libreria stracolma gli aveva chiesto se aveva letto tutto, aveva risposto: no no, quelli che ho letto li ho buttati nel cassonetto della carta, questi sono quelli che devo ancora leggere. Bella riposta. Un po’ stronza a voler vedere. Da intellettuale che tira per il culo quelli che non leggono, quelli che gli unici libri che hanno in casa sono i testi scolastici dei figli e l’enciclopedia della salute. O degli animali.
No. Lui libri nel cassonetto non ne ha mai buttati e non ne butterà mai, figuriamoci. Anche se ormai lo sa che non li leggerà tutti. L’ha capito di colpo, un giorno, come per caso. È così che ci si accorge, quando ci se n’accorge, delle cose importanti che succedono nella vita.
Ce ne sono lì decine che non leggerà mai. E non è solo perché il tempo che ha davanti è meno, molto meno, di quello che ha dietro, già vissuto. No. Non è solo per questo che si lascerà dietro libri comprati e neanche aperti, se non al momento dell’acquisto, in libreria.
La questione è un’altra. Ha capito che ha sempre letto non solo per il proprio piacere o interesse o curiosità, ma anche per gli altri: non è mai stato uno di quelli che sfoggiano le loro letture, però, nel momento stesso in cui leggeva aveva l’impressione, piacevole, di acquisire un credito nei confronti degli altri. Anche se magari non avrebbe mai avuto occasione di parlare con nessuno di quello che aveva letto. Gli bastava poter pensare, anche solo in teoria, che quel che leggeva andava ad aggiungersi a quello che aveva già letto e tutto questo gli sarebbe venuto buono una volta o l’altra: per parlarne con qualcuno che avesse letto le stesse cose, quantomeno. A ben vedere non avrebbe mai saputo dire di preciso perché si sentisse incoraggiato a leggere da questa specie di fiducia. Forse la ragione doveva proprio restare poco definita. Come l’identità di quei lettori paralleli. Quello che invece da qualche tempo sente è che non gli riesce più di leggere come se leggesse per gli altri, o con altri. Non ha altra possibilità che quella di leggere per se stesso. Come sempre è stato, di fatto: ha sempre letto per sé, certo. Ma è diverso adesso. Sente che non ci sono altri a cui potrebbe dire di quello che ha letto: si sono dissolti. Non li sa più immaginare. E dunque ha pensato di dover leggere, o rileggere, solo quello che lo interessa davvero, che in qualche modo serve a lui. Anche se ne avesse il tempo, perciò, probabilmente molti dei libri che ha accumulato non li leggerebbe mai. Anche da lì è venuta quest’idea di eliminarne buona parte. Ma è difficile: l’unico criterio dovrebbe essere quello di tenere solo i libri che hanno davvero contato per lui. I molti che ritiene importante aver letto, e i pochi che forse potrebbe aver senso leggere d’ora in poi.
E gli altri? regalarli? e a chi?
No, niente regali. A meno che… a meno che dei destinatari non si sappia nulla. Sì, però di lasciare in giro un po’ alla volta, uno qui uno là, i suoi libri, metti uno su una panchina dei giardini, un altro nella sala d’aspetto del dentista, un altro ancora sulla reticella di un vagone del treno, questo no. L’aveva colpito l’idea quando un’amica francese di Valeria, passata a trovarli di ritorno da qualche giorno di vacanza a Venezia, aveva detto che proprio quel giorno aveva finito di leggere un bel romanzo, in cui entrava anche Vivaldi, e quando Valeria le aveva chiesto di prestarglielo s’era dispiaciuta. Non poteva: una volta girata l’ultima pagina l’aveva lasciato sul tavolino del bar davanti a Santa Maria dei Miracoli. Per un momento gli era sembrato un gesto poetico, e divertente, molto francese insomma. Poi si era limitato a riconoscere che non era stato come buttarlo, quel libro, in un cestino dei rifiuti alla stazione. Ma era stato pur sempre un abbandono, un lasciarlo lì e andarsene sapendo che non ti può seguire, solo come un cane. Ecco, come un cane.
E anche portare i propri libri sul tavolo di qualche biblioteca di quartiere: fare bookcrossing, come dicono, o portarli le domeniche in cui fanno questa cosa, ci sono associazioni nate proprio per farlo… Be’, sì, quello non è abbandonarli come cani. È qualcosa di diverso… È come… esporli. Esporli come facevano coi bambini che non si poteva o non si voleva tenere. Prenderne altri in cambio poi… un baratto che gli sembra troppo disinvolto, in qualche modo spietato. Nei confronti del libro che avevi comprato, che avevi tenuto con te per anni, e poi via, come se fosse stato sempre e soltanto una cosa. Sono cose che si hanno, i libri, d’accordo: ma diverse dalle altre. Vive, a modo loro, grazie a te che continui a tenerle, anche se non le usi più. Sono stati lì per anni, i libri, taciturni, e tu te ne disfi come se fossero stati lì per caso, senza rapporti con i loro simili che tu gli hai scelto come vicini.
No, non sa come farà a dar via i suoi libri.
***
[…]
Valeria i giornali non li legge, però quel che succede lo sa e un’idea ce l’ha sempre. Poi, non è che si parli di politica, neanche con lei. Ma non perché lei lo trovi importuno, o noioso. È che lo lascia dire per qualche minuto e poi le viene quello sguardo, affettuoso ma vagamente ironico, che significa sì, bene, hai ragione, ma ci tieni davvero a queste cose? È come se gli dicesse, insomma, che certo, non sta facendo chiacchiere, ma fra loro… non è il caso. Loro lo sanno che anche parlare di politica è un modo per non parlare di sé, di come stanno davvero. E lui lo sente che c’è del vero, in questo. Lo sente anche se al momento ci resta male, e quel leggere poco o niente del tutto i giornali gli sembra un muro che lei ha tirato su fra loro. Ma lo sa, è vero: parlare di politica, in fondo, non è che la chiacchiera che lui – che le chiacchiere non le sopporta – predilige. Salvo rendersi conto, le rare volte che gli capita – e se capita è solo con chi la pensa come lui, naturalmente – che con tutto il suo leggere, libri e giornali, il più delle volte non ha argomenti diversi da chi legge molto poco, e magari gli si è rivolto con quel tu che leggi i giornali che lo fa sentire come uno stravagante, rimasto aggrappato a un’abitudine che non ha più senso, o come un animale in via di estinzione. Matteo, suo cognato, parla di automobili, il suocero, Giacomo, parlava di viti e caccia, lui di politica. Tutto qui. Forse è questo che è diventato, il parlare di politica.
giovani non ti badano proprio se vai su quegli argomenti, e quelli della sua età, anche quelli della sua idea, lasciano cadere: sappiamo com’è andata, dai, cosa stai lì a insistere… Anche perché, forse, parlar di politica li rimanda ai tempi in cui pensavano di diventare qualcosa di diverso da quello che sono. E oggi sono solo quelli che sono. Finita. Anche se non sono scontenti di quello che sono diventati. Finita, in ogni caso.
Quelli poi che non sono più giovani ma sono ancora lontani dai sessanta sessantacinque, quelli li raccomando. Sono i primi a infastidirsi di fronte a certi discorsi. Come i suoi cognati, per esempio. Ma di cosa parleranno, loro? Che cosa si diranno Matteo e Loredana? Non riesce neanche a immaginarseli a discutere di qualcosa. Che non sia la marca da scegliere o le calorie da mangiare. Da non mangiare anzi.
Ma in fin dei conti, cosa fanno di male questi due? A loro il mondo va bene così com’è. Ecco. Il fatto è che per lui quelli che la vedono così sono subito sospetti, persone da averci a che fare il minimo necessario. Coi clienti del negozio è un’altra cosa: lì van bene tutti, non c’è da fare i difficili. Ma fuori… È proprio rimasto quello che era, da giovane: o uno la pensa come lui – o quanto meno si vede che ci sta alle strette nel mondo-così-com’è – oppure è uno che non vale neanche la pena di parlarci. Perché – qui sta il punto – lui questo mondo lo considera provvisorio, sotto sotto, o meglio: non del tutto vero. Ce ne può essere un altro, quello giusto, ma è inutile cercarlo dietro o sotto questo che si vede, in cui si vive. Che cosa c’è dietro? Che cosa c’è sotto: erano frasi che si dicevano, che si leggevano sui giornali, quando erano giovani, e facevano politica. Ne discutevano ore. E adesso, molti di quelli che cercavano dietro, siccome si sono accorti di non aver trovato niente, o si sono stufati di cercare, pensano che non c’era niente da trovare: perché dietro, o sotto, non c’è niente, e così è andata a finire che la pensano proprio come quelli che han sempre pensato così e perciò non hanno mai cercato. Sono gli stessi che – all’avvicinarsi dei cinquanta, nella maggior parte dei casi – senza entrare a far parte della schiera di quelli che si usa definire voltagabbana, un cambiamento l’hanno comunque fatto: è come avessero creato una propria, personale bad company. Loro restano quelli che erano, ci mancherebbe: uomini di sinistra, di sinistra quella vera. Però… il lavoro è lavoro, il mondo è questo, devi pur sopravvivere in tutta questa merda… E allora si son costruiti una specie di personaggio parallelo che ha una disinvoltura e ostenta una spregiudicatezza da far invidia a quelli che banditi lo erano sempre stati, e dei loro principi da legge della giungla erano sempre andati orgogliosi.
Dire che sono dei cinici non è dirla tutta: sono dei cinici bugiardi, cinici a corrente alternata, perché li devi sentire come sanno battere i pugni sul tavolo quando – fra amici, amici fidati, di quelli di una volta – parlano di politica.
Lui no, cinico di sicuro non lo è diventato, né lo è mai stato. Scettico se mai. Passava per scettico in quegli anni della politica. Scettico e spocchioso, anche.
Era la maschera che da qualche tempo usava: per distinguersi dagli altri, perché non riusciva ad aderire alla loro fiducia. Perché lo vedeva: era una fiducia che, presi uno ad uno, non avevano, e che manifestavano invece se erano insieme. Nelle riunioni e ancora di più nelle manifestazioni.
Lui no, neanche in quelle occasioni credeva che le cose stessero davvero per cambiare da cima a fondo.
Non lo sapeva spiegare, ma non ci credeva a tutta quella foga di saper vedere che cosa c’era davvero dietro: ai discorsi dei politici, alle manovre degli industriali, alle guerre. Perfino a quello che facevi o pensavi. Quegli altri lo sentivano che lui non era del tutto dalla loro parte. Ed è andata a finire che lui da quella parte c’è ancora: perché – crede di averlo capito, adesso, non da molto tempo – lui pensava, anche se non abbastanza da dirlo, allora, che si dovesse cercare dentro. Né dietro né sotto: dentro. Dentro questo mondo, dentro gli uomini e le donne che ci sono, non in quelli che ci saranno. O che sono da qualche altra parte (il suo sentirsi spaesato, distante dagli altri, nei pochi cortei studenteschi cui ha partecipato: con quell’inneggiare a Al Fatah e al compagno Ho Chi Minh…). Lui pensava, senza sapere il perché – non lo saprebbe spiegare davvero neanche adesso, se è per quello – che l’altro mondo, quello giusto, è dentro questo che conosciamo e non ci piace. C’è già, è qui, vicino, anche se per arrivarci, per farlo venir fuori chissà cosa ci vuole. Un lavoro lunghissimo, difficile, che non si sa se riuscirà mai. Ma, almeno, scavare nel posto giusto: dove si è, non da un’altra parte. Non lo sa perché la pensa ancora così. Non sa pensarla diversamente, ad ogni modo.
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Recensioni
Da Bresciaoggi del 15 gennaio 2016.
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Da Gruppo 2009 del 6 gennaio 2016: link
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Da AB inverno 2015.
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