Favola nera dal vero

Claudio Morandini, Neve, cane, piede, Exòrma 2015, pp. 144, euro 13

La montagna, il bosco, la neve: Rigoni Stern, pensi all’inizio. Ma vai avanti, e il vecchio ti richiama un Rosso Malpelo sopravvissuto alle fatiche, e perché non un’altra figura di Verga, il Mazzarò della Roba? Ma neanche qui puoi dire di averlo capito, Adelmo Farandola.

Perché è vero che è tutto concentrato su di sé e sulle sue cose, ma i soldi che aveva se li è dimenticati in banca e non sa neanche più di averli, e quei pochi che tiene nella sua baracca sperduta sono solo il mezzo che gli permette di far provviste le rare volte che scende fino al paese. Per poi scordarsi, quando è alla bottega, di che cosa ci fosse andato a fare. Ma anche l’eco di un altro vecchio smemorato isolato fra le montagne, il signor Geiser dell’Uomo nell’Olocene di Frisch, si spegne presto: Adelmo non possiede alcun immaginario enciclopedico cui aggrapparsi per non perdere la memoria.
Però c’è il cane, un randagio che gli si è affezionato, e gli parla, dando voce a quel che di umano è rimasto in lui, soprattutto quando dalla valanga spunta un piede. Un piede umano. E qui il racconto si tinge di giallo: di chi è quel piede? Per un po’ crediamo di aver capito dove vuol andare a parare questo racconto. E invece no. Non è neanche un giallo alpino, questo racconto (ce ne sono: pur di scriverne, i giallisti sono arrivati anche in alta quota, vedi Faggiani e il suo forestale detective).
Tra i tanti echi di cui risuona e le molte tracce che semina e subito si perdono, Neve, cane, piede, alla fine si rivela una “storia vera”, a suo modo. Ce lo spiega l’autore, nella “Storia di una storia” con la quale in conclusione si è sentito in dovere di illuminare il lettore. E, si direbbe, giustificare anche di fronte a se stesso il fatto di aver immaginato questa favola pacata e feroce.

Spaesamento

Marco Revelli, Non ti riconosco più. Viaggio eretico nell’Italia che cambia, Einaudi maggio 2016, pp. 254, euro 20

“Prati incolti, trincee scavate come per una guerra abbandonata o forse solo sospesa”: “un deserto dei tartari nel bel mezzo del Nord intasati e asfissiato dal traffico”. E’ la BreBeMi: passa anche da noi il “viaggio eretico” di Revelli.

Le auto che riesce a contare fra Brescia e la Milano dell’Expo, sono settantasei, e “nei bar di Rudiano o Travagliato proliferano le leggende parametropolitane più fantasiose, dell’industrialotto che prima di cena celebra il rito della corsa in Ferrari sulla pista libera come fosse a Monza”. Ma la grande opera che l’Expo sembrava esigere è solo una delle occasioni per fare tappa lungo un itinerario che da Torino (“città promessa, città perduta”) arriva là, a Lampedusa, “il luogo geometrico in cui s’incontrano e si scontrano l’immensa ondata della speranza che si fa illusione e la dura risacca dell’avarizia che vira in ferocia”. Più che mai in questo libro la scrittura del politologo, dello storico, si fa letteraria: perché il suo proprio sentire è il documento più significativo che porta, la sensazione che prova di fronte alle cose che vede. Quella che cerca è la possibilità di esprimere in prima persona – «in soggettiva», per così dire – la dimensione della trasformazione che il nostro Paese ha subito in questo passaggio di secolo. O, più banalmente, un motivo (una misura?) del senso di straniamento. E, se possibile, un’uscita di sicurezza…”.
Quello che accade leggendo il bilancio di questo viaggio è un’impressione inquietante di condivisione di quel che prova l’autore: “la sgradevole sensazione che si appiccica addosso quando ci si trova a misurare l’irriconoscibilità dell’immediata prossimità. E di se stessi.” E non occorre un viaggio, del resto: si “Devo ammetterlo. Ho cominciato a perdermi nella mia città. O meglio, a non ritrovarmi.”
Eppure… Eppure, “non esco prostrato dal mio «non riconoscere» (…) Vedo piuttosto nell’irriconoscibilità del nostro presente l’occasione di una «sorta di smascheramento»”. Perché c’è verità nelle “travi rugginose, nelle finestre spente dei capannoni dismessi, nell’erba incolta dei vuoti industriali”.
E’ forse per questo che non finiscono di chiamarci, di chiederci di averli a cuore, di partire da loro per immaginare il futuro di una città nella quale tornare a riconoscerci?

Marco Revelli spiega perché voterà “no” al referendum sulla riforma costituzionale Boschi, Alba (CN, Italia), sala riunioni dell’hotel Savona

Un maestro senza terra

Britta Böhler, La decisione, Guanda, maggio 2016, pp. 208, euro 15

Tra il venerdì e la domenica mattina, dal 31 gennaio al 2 febbraio del 1936. Ci vogliono tre giorni, a Thomas Mann, per prendere la decisione, o meglio: per decidere di non far marcia indietro rispetto alla decisione presa quando ha portato alla redazione del maggiore giornale di Zurigo la lettera che segnerà per lui la rottura definitiva, irreversibile con la Germania ormai precipitata nel baratro nazista.

L’ha portata ma ha poi chiesto che si attendesse a pubblicarla. Ci deve pensare.
È al sicuro, ma in esilio, nella città svizzera: in Germania non tornerà mai più. Sta scrivendo la terza parte di Giuseppe e i suoi fratelli: anche Giuseppe è un reietto, “costretto a trovare una nuova casa in un paese straniero”. Ma per Mann non si tratta solo di spaesamento: per lui la rottura con il proprio paese rischia di tradursi nell’impossibilità di continuare a scrivere. Un bivio drammatico per chi è sempre stato convinto che tra la vita e la scrittura si debba scegliere e su questa convinzione ha fondato il suo lavoro quotidiano (avendo sperimentato come “si riesca a capire qualcosa di sé solo quando si scrive. I periodi in mezzo – tra un libro e l’altro – sono terribili”).
Viene da qui la tentazione di ritirare la lettera. Non semplice prudenza, ma ritorno di un pensiero radicato nel profondo: “uno scrittore deve creare, non agire”. La politica non fa per lui. Ma è anche vero che “chi non si oppone è complice”, glielo ricorda la figlia Erika, e del resto lui è diverso da Hesse, cittadino svizzero da anni, senza nostalgie per la patria. Ma lui no: lui è uno “scrittore tedesco”. Se non scrive per la Germania, se non scrive per quelli da cui soprattutto si aspetta il riconoscimento che motiva la sua scrittura, perché scrivere? “Che cosa gliene importa, di avere lettori in America e in Cecoslovacchia, in Spagna e in Giappone, se i suoi libri non possono più essere pubblicati in Germania?”.
Tra un the e una passeggiata con il cane Toby, un sigaro e una parola affettuosa della moglie Katja (quando potremo leggere i Diari di Mann in traduzione italiana?), lo scrittore comprende finalmente qual è la sua vera posizione. La Germania di cui è fatto, della quale non può fare a meno, non “è più lì dove il paese si trova geograficamente”: “dove sono io, lì è la Germania”.
Non resta che telefonare al giornale: la lettera sarà pubblicata. Non è una decisione imposta, e neanche autoimposta: è stata faticosamente guadagnata, costruita, passando attraverso riflessioni e bilanci che sono andati oltre le circostanze, non aggirando quesiti che stanno alla radice della scrittura: perché, e per chi, lavora uno scrittore? può scrivere senza un mandato sociale? può continuare a farlo senza che gliene venga un riconoscimento?

Inevitabile cercare risposte a domande simili, quanto impossibile trovarne. La soluzione, se mai, sembra star nell’ammettere un’oscillazione, un’ambivalenza insita nella figura sociale dello scrittore, nella pratica stessa del suo lavoro: “Omaggi e lauree ad honorem in fondo se li era guadagnati, ed era contento quando gli venivano tributati”, “sì, quel genere di cose lo rendeva felice, anche se spesso avrebbe preferito condurre una vita in silenzio e solitudine. Ah, nel mio petto – lo deve riconoscere– convivono due anime.” Eppure la sua scelta non può essere quella di Hesse, quella di “essere al tempo stesso dentro e fuori”: i tempi non lo rendono possibile. Ma lo scrivere sì, lo esige: senza la giusta distanza, non si scrive, o non si scrive niente di buono. E la distanza fra la Germania perduta nei meandri della follia nazista e quella che la “nobiltà dello spirito” può preservare si rivela alla fine in grado di rappresentare questa distanza essenziale. La scrittura è ancora possibile. Anzi: è necessaria.

Pic nic in terrazza

Sergio Claudio Perroni, Il principio della carezza, La nave di Teseo, maggio 2016, pp. 104, euro 15

Lei è una scrittrice, e quindi scrive, nella sua stanza. Ma non vive, o non vive davvero. O così il disincanto le fa sentire.
Lui è un pulitore di vetri, quelli delle finestre dei palazzi. E’ pieno di curiosità, di allegria, e quindi vive. Ma non scrive. Pulisce i vetri.

Lei dentro, al sicuro.
Lui fuori, sul piccolo ponteggio mobile che sale e scende lungo la facciata.
Roba da Hopper. Invece no.
Perché lei potrebbe vivere, lo scopre parlando con lui: da dentro a fuori. Scopre di non essere insensibile agli occhi di lui che la guardano, ai complimenti che rivolge a quello che lei scrive (lo stava leggendo ad alta voce, lei, ma lui, con quel mestiere, ha imparato a leggere le labbra e ha ascoltato anche se la finestra era chiusa).
E lui potrebbe scrivere, lo scopre parlando con lei: di pensieri e cose da dire ne ha, tante da tenerle testa in dialoghi arguti, leggeri, scoppiettanti.
Come in un film francese.
Lei non è più una ragazza, né una signora in vena di giovanilismo.
Lui non è un don Giovanni, né un artigiano che va per le case ad approfittatore di signore tristi.
Parlano e bevono insieme il caffè, mangiano biscotti.
Lei lo invita ad entrare, anche, e lui accetta. Ma non accade nulla.
Accadrà in un luogo neutrale: non la casa di lei. Né il trabiccolo sempre in bilico di lui.
Sarà un pic nic sulla terrazza del palazzo l’occasione. L’occasione di “un bacio che è come il prolungarsi di un respiro”. Fine.
Come in un film francese.

L’altra figlia di Annie Ernaux

Annie Ernaux, L’altra figlia, L’orma editore, 2016, pp. 88, euro 8,50

Chi segue questa autrice non troverà nulla di propriamente inedito in questo libro solo ora tradotto, ma non fosse che per questa pagina

“Racconta che oltre a me hanno avuto un’altra figlia e che è morta di difterite a sei anni”: “mio marito è diventato matto” quando ha trovato la figlioletta morta tornando dal lavoro.
Lo racconta a una vicina, la madre, e lei, bambina di dieci anni, è lì accanto: sente e finge di non sentire, anche quando la madre si riferisce a lei (“lei non sa niente, non abbiamo voluto rattristarla”), e conclude: “era più buona di quella lì.”
Questo il fatto: “quella lì, sono io”, ed è quella lì adesso, Annie, a raccontare: “non rimprovero loro niente. I genitori di un figlio morto non sanno ciò che il loro dolore fa a quello vivo”.
Un fatto che ha segnato la vita della scrittrice, non esclusa la sua vocazione letteraria, apprendiamo. Ma pu sempre un fatto privato, un pezzo di storia della sua famiglia, anche se la morte di una bambina non doveva certo essere un evento eccezionale quando il vaccino antidifterico non era ancora pratica diffusa. Sennonché il fatto non sta in quella morte, ma nel modo in cui se ne ha avuto notizia, e qui ritroviamo l’arte di Annie Ernaux di dare consistenza a ciò che è accaduto, a ricordi, a immagini del passato, facendone occasione per ricostruire un contesto sociale, una memoria collettiva, una mentalità diffusa; per continuare nell’opera di scrivere quell’ “autobiografia impersonale” di cui abbiamo letto nel suo Gli anni (del 2008, e dunque precedente questo racconto, scritto in forma di lettera alla sorellina mai conosciuta, uscito nel 2011).

Da: Annie Ernaux, L’altra figlia

“(… ) a fissarsi nella mia memoria è quel racconto che non avrei dovuto sentire, non destinato a me, indirizzato a quella giovane donna elegante che probabilmente lo ascoltava subendo il fascino delle disgrazie che si teme possano accadere a se stessi. (…) Il racconto che proferisce la verità e mi esclude.
A ripensarci, com’è possibile che, pur consapevole della mia presenza al punto da indicarmi, si sia lasciata andare a parlare di te? La spiegazione psicanalitica – grazie a uno stratagemma dell’inconscio mia madre avrebbe trovato il modo di rivelarmi il segreto della sua esistenza, e dunque sarei stata proprio io l’autentica destinataria del racconto – è, come al solito, allettante. E ignora la storia delle mentalità. Negli anni Cinquanta gli adulti consideravano noi, i bambini, come creature dalle orecchie trascurabili, davanti alle quali si poteva dire di tutto senza conseguenze a eccezione di ciò che riguardava il sesso, a cui si poteva soltanto alludere. E poi c’è un’altra cosa, della quale sono certa perché ho ascoltato spesso, in seguito, racconti luttuosi confidati da donna a donna, in treno, dal parrucchiere o in cucina davanti a una tazza di caffè, come memento mori in cui si sfoga tutto il dolore condividendolo nei dettagli, descrivendo con precisione le circostanze: una volta iniziato a parlare di te non poteva più fermarsi, non poteva non andare fino in fondo. Narrando della tua scomparsa a quella giovane madre, che l’ascoltava per la prima volta, trovava il conforto di una forma di resurrezione.”

Scrivere come Cornia

Ugo Cornia, Buchi, Feltrinelli, pp 96, euro 10

tutto finisce e non finisce mai di finire, ma sarà finito un giorno o non finirà mai
Le frasi spesso non hanno bisogno della maiuscola per cominciare, perché quella prima, anche se sembrava, non era finita, e infatti non c’era il punto, alla fine, e dunque non era una fine: ti viene da scrivere come Cornia se leggi Cornia. Se segui il suo discorso da un libro all’altro, perché anche i suoi libri non finiscono davvero. Si interrompono. E riprendono con la stessa voce: ti sembra che non si possa scrivere diversamente, che scrivere come hai scritto finora, scrivere come ti hanno insegnato – maestri, professori, e anche gli autori che hai letto, quelli che daresti non so cosa per scrivere come loro – ti sembra che scrivere come finora hai fatto o hai cercato di fare sia una finta, un rinunciare a dire la verità, un non tenerci davvero a stare attaccato all’essenziale che hai da dire, e che hai da dire perché così stanno le cose: in un universale e continuo smantellamento di tutte le cose.
Che poi, a ben vedere, le cose restano, sono loro che restano, che durano di più di noi. E così della vita restano le macerie: qualche mobile, qualche quadro, carte varie, e lastre. Lastre fatte non si ricorda quando ma che non butti via, che restano nei cassetti. Lastre di tuo padre, di tua madre, tue: un album di famiglia. Cose ma anche frasi, frasi fatte: non si è mai finito, o: sembra ieri o anche: che malinconia. Frasi come fili di una ragnatela micidiale a cui non si sfugge: un giorno anche la tua bocca sparerà un che non si è mai finito.
Cose, parole, che sono i documenti di un passato che non passa. E come potrebbe, visto che non sai capacitarti che la morte sia dentro la vita, ne sia parte: perché sempre, come sentimento personale, hai sentito la morte come cosa esterna che non ci centra niente con la vita, e non sei del resto meno incredulo se pensi alla nascita, alla tua nascita: c’è una cosa che fino a prima che nascessi tu non c’era, e invece dopo poco che sei nato c’è stata, quindi questa cosa per te sembrerà necessaria e normale, per sempre.
Più che sgomento, o rabbia, è incredulità quella che Cornia prova di fronte al succedersi degli eventi, al passare del tempo. Incredulità ma non negazione: resta un buco al posto di chi non c’è più, un grande buco, in un posto che prima non c’era. E dentro il buco cosa c’è? Niente. Niente di niente, perché la natura dei buchi è proprio di essere senza niente dentro. Intorno al buco c’era stato tutto quello che c’era prima, E invece dentro il buco non c’è niente.
No. Non è solo incredulità: è dolore. È il dolore. E forse l’unico modo per dirlo, oggi, è scrivere così.
Come Cornia.

Estreme conseguenze

Bruno Arpaia, Qualcosa, là fuori, Guanda 2016, pp 220, euro 16

Non è un day after, non è un terribile inatteso domani: è un oggi portato alle estreme conseguenze. Estreme ma prevedibili fin d’ora. Le conseguenze del cambiamento climatico si sono abbattute su un mondo che non le ignorava ma non le ha volute evitare.

Un mondo in cui tutti sono profughi: non solo i disperati che in proporzioni inedite abbandonano i paesi del Sud del mondo, ma anche i fortunati che ne abitavano quella porzione che chiamiamo Occidente e sono ora costretti anche loro a rischi e fatiche mortali nel tentativo di raggiungere i paesi più settentrionali dove esiste ancora l’acqua. E tutto ciò avviene nel magma di una irreversibile crisi di civiltà, anche questa annunciatasi da tempo, anche questa non contrastata davvero dai detentori della cultura: “sapevano di essere antiquati, di coltivare in estinzione, di amare cose che la gente ormai ignorava o disprezzava: il mondo intorno a loro andava da tutt’altra parte. Si riunivano, ne discutevano, organizzavano presentazioni di libri o conferenze, ma in fondo erano consapevoli che la loro era una battaglia persa.”
Non un’ennesima distopia proiettata in un futuro terrificante, questo romanzo, ma il tentativo di incrinare, oggi, lo stato di negazione nel quale viviamo: quel sapere e nel contempo non sapere, quel sapere che non si traduce in un fare. Spesso neanche in un dire, per il timore di apparire catastrofisti, di restare esclusi dalla corrente di una religione del progresso che senza porsi domande sui fini ciecamente domina il nostro tempo.

La scrittura è figlia del cammino

A piedi, di Paolo Rumiz. Feltrinelli 2012 (collana Feltrinelli Kids), pp. 128, € 12,00

Del rapporto stretto fra il passo (quello che si fa camminando) e il racconto non si stanca di parlare Rumiz … L’autore è ospite della libreria lunedì 16 maggio alle ore 17.30

Flaubert era dell’idea che non si può scrivere se non seduti. Nietzsche non la pensava così, convinto com’era che solo i pensieri nati camminando hanno valore. Ma anche quelli che si scrivono, soprattutto quelli, aggiungerebbe Paolo Rumiz. E forse ha ragione: quando si apre un libro per farsi un’idea non tanto di quel che dice ma di come lo dice se ne legge un passo, appunto, e del rapporto stretto fra il passo (quello che si fa camminando) e il racconto non si stanca di parlare Rumiz: Una storia raccontata in bicicletta è diversa da quella del viaggio a piedi. La prima è un mordi e fuggi mentre il viaggio a piedi è più introspettivo e complesso, tanto che si può sostenere che non esiste viaggio senza scrittura. L’andatura diventerà scrittura. La scrittura è figlia del cammino. Anche i pensieri, anche i ricordi nascono dal ritmo regolare dell’andare.
Anche l’ultimo dei viaggi che ci racconta in estate, sulla Repubblica, Rumiz l’ha fatto a piedi, da Roma a Brindisi lungo l’Appia perduta, ma la sua filosofia del camminare, del camminare scrivendo, ha voluto sintetizzarla in un piccolo libro: A piedi, il racconto della passeggiata di una settimana, da Trieste a Promontore (Premantura in croato), la punta estrema dell’Istria. Il libro è stato inserito nella collana per ragazzi (della Feltrinelli) ma è stato l’occasione per scrivere cose che mi sarebbe piaciuto da tempo dire anche agli adulti, assicura l’autore.

Lo sguardo antropologico di Ugo Fabietti sul Medio Oriente

Ugo Fabietti, Medio Oriente. Uno sguardo antropologico, Raffaello Cortina editore, 2016, pp.300, euro 24

L’autore è fra i relatori del secondo incontro del ciclo “Islam. Il bisogno di capire”, venerdì 13 maggio alle ore 18 in libreria

Antropologico: non storico, geopolitico o politologico, filosofico o teologico. Uno sguardo capace di fare argine all'”ondata ideologica spesso odiosa e ignorante” che ha occupato il campo mediatico occidentale dopo l’11 settembre. Uno sguardo capace di contrastare la semplificazione bugiarda dello “scontro di civiltà”, frutto avvelenato delle teorie dei politologi americani la cui fortuna si è alimentata della resistenza diffusa a “comprendere la diversità nei suoi propri termini” applicando invece “in maniera spontanea e ingenua le nostre categorie alla comprensione della differenza”. Uno sguardo capace di spostarsi dalle personalità e dagli eventi politici e dalla dichiarazioni ideologiche per occuparsi di culture (al plurale) che abitano il Medio Oriente, un’area che va dal Marocco al Pakistan, caratterizzata da “tratti culturali riconducibili allo stesso sistema di significati” anche se attraversata da differenze profonde.
E culture, per l’antropologo, non sono quelle alte, dei pensatori e degli scrittori: sono quelle di tutti, che si manifestano nell’immaginario, nella vita quotidiana, nelle strategie di vita individuali. Culture prese tra spinte verso la laicità e il fondamentalismo religioso, la fame di democrazia e la gerarchia dei rapporti d’autorità, la tradizione e la modernità: proprio per questo dilaniate da contraddizioni capaci di generare “una conflittualità da esportazione”.

La femmina nuda di Elena Stancanelli

Questa non è una recensione, né una breve scheda (se ne trovano di ottime nella rete…). Si può invece consigliare un libro non fosse che per una due pagine? Intendendo naturalmente che il resto non è affatto da buttar via, anzi: La femmina nuda di Elena Stancanelli – pubblicato dall’appena varata Nave di Teseo che con questo primo titolo si avventura su mari tempestosi sfidando la superconcentrazione editoriale – è tutto da leggere. Ma appunto, di questo nuovo romanzo candidato allo Strega, della sua protagonista dolorante/delirante dopo l’abbandono, tanto da toccare il fondo diventando una stalker, si può con profitto leggere altrove. Il fatto è che nel libro c’è dell’altro, come nelle due paginette che seguono, e di cui ci spiace Stancanelli non abbia disseminato con più generosità il suo racconto, regalandoci piccoli saggi sulla nostra contemporanea cultura (?) materiale.

Da: Elena Stancanelli, La femmina nuda (La nave di Teseo 2016, pp. 156, euro 17)

Ho iniziato a comprare soltanto cracker e succhi di frutta. (…) è sorprendente quanto siano cambiati da quando noi eravamo bambine. Anche i cracker sono migliorati: adesso sono più buoni, saporiti, e grazie a qualche miracoloso nuovo ingrediente non si sbriciolano più tra le dita quando ci spalmi sopra lo stracchino. Nella maggior parte dei casi è stata elimi¬nata la linea tratteggiata che li divideva a metà e che sarebbe dovuta servire per spezzarli meglio. Ma invece si risolveva quasi sempre in un pasticcio, come tutte le linee tratteggiate a partire da quelle delle bollette. Adesso i cracker sono interi e spesso contengono semi di vario tipo, farine preziose. Ci sono col sale sopra, senza sale sopra, integrali, ai cereali. Ma tutto sommato i cracker, a parte la linea tratteggiata, non sono molto diversi da quelli che ricorderai.
I succhi di frutta invece sono irriconoscibili. Quelli mono¬gusto non esistono quasi più: arancia, ananas, pompelmo. Solo alcuni discount li tengono ancora, in confezioni giganti con la scritta brutta. Hanno quel sapore aspro, un po’ DDR. Nessuno li compra, tranne le famiglie numerose di bengalesi, o gli ado¬lescenti quando fanno la spesa per le feste. Poi li mischiano con la vodka e li vomitano sui tappeti. Quello al pompelmo è micidiale, alla prima sorsata ti si chiudono tutte le papille sotto le orecchie, come se qualcuno stesse cercando di strangolarti. A volte quei succhi antichi li trovi anche sugli Eurostar o nei voli Alitalia.
I succhi moderni, occidentali, sono invece buonissimi. Com¬posti di frutti diversi, assemblati per colore, forma, utilità. Ce ne sono alla frutta rossa, gialla, bianca, blu, con aloe, ginseng, fiori d’arancio, energetici, digestivi, ACE. Hanno nomi curiosi, che evocano piaceri raffinati. E tutti contengono vitamine, an¬tiossidanti e roba che si presume debba fare bene e di cui tutti quanti evidentemente siamo carenti.
Ho pensato molto ai succhi di frutta in quell’anno. Perché preferiamo qualcosa che è composto di tante cose, più ce ne, sono e più siamo felici? Credo che sia una questione cruciale. Non ci fidiamo più, non riusciamo più a dire sì, voglio quello. Perché quello è fallace. E se si rivela aspro, troppo dolce? Non abbiamo la forza di difendere la nostra scelta. Per scegliere bi¬sogna immaginare che qualcosa sia migliore di qualcos’altro, o almeno che ci piaccia più di qualcos’altro. Scegliere è escludere. Ma noi non lo sappiamo cosa vogliamo, cosa ci piace. Non lo sappiamo più. E allora la cosa che ci rende più felici è il multiplo, meglio ancora se arricchito con altra roba. Un sapore indecifrabile ma buonissimo, del quale non si possa accertare l’origine. Non esiste nessun ACE in natura. Ormai quasi tutto quello che ci circonda è così, pensavo davanti a interi scaffali di succhi di frutta: multiplo e indecifrabile.

John Berger, Perché guardiamo gli animali?

John Berger, Perché guardiamo gli animali? Dodici inviti a riscoprire l’uomo attraverso le altre specie viventi, Il Saggiatore 2016, pagine 120, € 16.00

Del guardare si intitolava la raccolta di articoli e saggi fra cui era comparso, oltre vent’anni fa, lo scritto che ritroviamo nel recente Perché guardiamo gli animali? di John Berger. E si tratta appunto di guardare, senza cercar di riconoscere, di tranquillizzarsi collocando quel che si ha davanti nel già noto. Guardare senza cedere all’imbarazzo, o all’inquietudine che ci fa passare a guardare altro. Guardare e lasciarsi guardare, senza abbassare gli occhi, anche se chi ci guarda non è un altro essere umano.
Stare nello sguardo che intercorre fra me e l’animale: tutto qui.

Quel che ne viene, fra gli innumerevoli discorsi che facciamo, e leggiamo, sugli animali, è una riflessione profonda ma non teorica, colta ma che non ha bisogno di note: sembra di averle già pensate molte delle cose che Berger dice, o che le si sarebbe potute pensare anche noi, solo che non avessimo liquidato il cavallo che incontriamo mentre facciamo una passeggiata con un buffetto sulla fronte, o il gatto che è spuntato da sopra un muretto al nostro arrivo con un’occhiata distratta, interrompendo così la domanda che veniva dai loro occhi.
Ma lo sappiamo, anche noi, che “quando sono intenti a esaminare un uomo, gli occhi di un animale sono vigili e diffidenti”, e al tempo stesso indifferenti, perché l’animale “non riserva uno sguardo speciale all’uomo. Ma nessun’altra specie, a eccezione dell’uomo, riconoscerà come familiare lo sguardo dell’animale.” Perché? Ed ecco una delle molte osservazioni che Berger butta lì con disinvoltura, e che ci obbligano a rileggere, a sottolineare mentalmente: perché “l’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiarlo”, quello sguardo. Somiglianza e diversità convivono nell’attimo in cui vive, sospesa, questa muta reciprocità. Si tratta di accettarla, di non sfuggirla, e allora si comprenderà che “l’animale ha segreti che, a differenza dei segreti delle caverne, delle montagne, dei mari, si rivolgono specificamente all’uomo”.

Gianni Celati: un classico

Gianni Celati, Romanzi, cronache e racconti, a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri, Meridiani 2016, 1984 pp., 80 euro

È in libreria il Meridiano che raccoglie le opere di Gianni Celati, scrittore che molti di noi hanno seguito a partire dai romanzi stralunati delle Avventure di Guizzardi e della Banda dei sospiri fino ai taccuini d’appunti presi camminando, non importa se lungo il Po o in Africa…

Anche per chi non l’ha accompagnato in tutto il suo percorso, la figura di Celati resta legata a quella di Italo Calvino. Due scrittori apparentemente lontani, due modi di scrivere diversi: sommaria, giocosa, dissolutrice, sconclusionata, insomma rumorosa e carnevalesca la prosa di Celati, quanto ordinata, rigorosa, razionale, controllata (anche quando la partecipazione dell’autore si fa evidente) la scrittura di Calvino.
Eppure il legame che unì i due scrittori fu un’amicizia che, nonostante un quindicennio segnasse la differenza fra le loro età, non si può interpretare semplicemente come quella tra discepolo e  maestro. Una consonanza profonda, piuttosto, un desiderio di confronto che si mantenne vivo negli anni: «Quando Calvino – racconta lo stesso Celati – veniva in Italia da Parigi, per andare a lavorare da Einaudi, una settimana al mese, mi telefonava tutti i giorni e ci scambiavamo idee. Io avevo la borsa di studio a Londra e viaggiavo con una macchina scassata: un camion mi aveva tamponato e la portiera mi arrivava fino alla spalla. Ma con quella macchina andavo avanti e indietro una volta ogni tre o quattro mesi e, passando da Parigi, mi fermavo a dormire da Calvino».

Il Meridiano dedicatogli fa di Celati un classico?
“Proprio lui che ha sempre aborrito ogni seriosità e ogni incrostazione narrativa stilistica”?  si chiede Ermanno Cavazzoni (sul Sole24ore di domenica 14 febbraio).
E noi con lui: si possono applicare a Gianni Celati le definizioni che l’amico Calvino coniò per spiegarci che cosa sono i classici?
“D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima”: chi ha già preso in mano il Meridiano Celati, non potrà che rispondere di sì. E continuerà ad assentire se proseguirà nell’esperimento: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”, “Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso”. Infine, anche chi Celati non l’ha mai letto e solo ora gli si avvicina dovrà ammetterlo: “I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.”

Restiamo a Cavazzoni allora, e al Belpoliti del saggio introduttivo (sì, lo stesso critico che, ospite di Casa della memoria e della nuova libreria Rinascita, ci ha parlato di Primo Levi): “Certo un Meridiano è sempre qualcosa di santificante, diciamo che mette i contemporanei in odore di classicità. (…) Celati è stato un autore decisivo, dice giustamente Belpoliti, figura di riferimento, anche se non appartenente all’esercito regolare delle lettere patrie. Non si è mai atteggiato a maestro, a caposcuola, capo corrente; però ha tirato tanti giovani autori verso la letteratura; con l’esempio di un’attività leggermente ascetica, più che di una professione. Belpoliti la chiama etica; sì, scrivere come atto di devozione…”.

Domenica

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È domenica, ma si sveglia prima dell’alba: non un incubo o l’insonnia, ma un’indistinta voglia di fare spinge Ezio ad alzarsi nella casa ancora buia, dove la moglie e la figlia dormono. Si limita a sfogliare qualcuno dei volumi che ha tolto dalla sua libreria e accatastato sul tavolo, per riordinarli e soprattutto per disfarsi di quelli che da anni non prende in mano.
È una di quelle domeniche destinate alla visita ai suoceri che abitano sul lago: un breve viaggio in treno, il pranzo, i soliti discorsi e poi il ritorno. Ma non sarà come le altre: Giacomo, il padre di sua moglie, che col tempo gli è divenuto amico, è malato. Sta vivendo i suoi ultimi giorni.

Non eventi imprevisti, ma riflessioni, ricordi, intuizioni che attraversano la mente di Ezio fanno di questa domenica una sorta di spartiacque nella sua vita. Ed è nella scrittura, nella decisione di scrivere della giornata appena vissuta, che il protagonista individua una via per introdurre un cambiamento decisivo nella propria vita. Una vita segnata dalla riluttanza a coincidere pienamente con la propria condizione, dalla tendenza a immaginare altri destini sull’onda di un desiderio sempre proiettato in un indefinito domani.

Quelle che seguono sono alcune pagine nelle quali compaiono temi ricorrenti nel romanzo: il destino dei libri accumulati per decenni, il rapporto con la dimensione pubblica e la politica, ma soprattutto il pensiero della morte, e del proprio rapporto con il Tempo.

[…]
Comprava uno due libri quasi ogni settimana.
Tornare a casa con un paio di libri nuovi da spiluccare prima di andare a letto lo faceva star bene. Tanto sapeva che avrebbe letto tutto.
Non riusciva a tener dietro ai suoi acquisti. Ma avrebbe letto tutto.
È difficile però leggere un libro dopo tanto tempo che lo si è comprato. Averlo tenuto in casa per anni, al suo posto, insieme agli altri dello steso autore o che trattano della stessa materia, ti dà l’impressione di averlo letto. Forse, gli viene da pensare adesso, ma senza far sul serio, potrebbe eliminare tutti i libri che non ha mai letto. Ma allora perché non quelli che ha letto? Come quel tale, che all’idraulico che gli era venuto per casa e guardando la libreria stracolma gli aveva chiesto se aveva letto tutto, aveva risposto: no no, quelli che ho letto li ho buttati nel cassonetto della carta, questi sono quelli che devo ancora leggere. Bella riposta. Un po’ stronza a voler vedere. Da intellettuale che tira per il culo quelli che non leggono, quelli che gli unici libri che hanno in casa sono i testi scolastici dei figli e l’enciclopedia della salute. O degli animali.
No. Lui libri nel cassonetto non ne ha mai buttati e non ne butterà mai, figuriamoci. Anche se ormai lo sa che non li leggerà tutti. L’ha capito di colpo, un giorno, come per caso. È così che ci si accorge, quando ci se n’accorge, delle cose importanti che succedono nella vita.
Ce ne sono lì decine che non leggerà mai. E non è solo perché il tempo che ha davanti è meno, molto meno, di quello che ha dietro, già vissuto. No. Non è solo per questo che si lascerà dietro libri comprati e neanche aperti, se non al momento dell’acquisto, in libreria.
La questione è un’altra. Ha capito che ha sempre letto non solo per il proprio piacere o interesse o curiosità, ma anche per gli altri: non è mai stato uno di quelli che sfoggiano le loro letture, però, nel momento stesso in cui leggeva aveva l’impressione, piacevole, di acquisire un credito nei confronti degli altri. Anche se magari non avrebbe mai avuto occasione di parlare con nessuno di quello che aveva letto. Gli bastava poter pensare, anche solo in teoria, che quel che leggeva andava ad aggiungersi a quello che aveva già letto e tutto questo gli sarebbe venuto buono una volta o l’altra: per parlarne con qualcuno che avesse letto le stesse cose, quantomeno. A ben vedere non avrebbe mai saputo dire di preciso perché si sentisse incoraggiato a leggere da questa specie di fiducia. Forse la ragione doveva proprio restare poco definita. Come l’identità di quei lettori paralleli. Quello che invece da qualche tempo sente è che non gli riesce più di leggere come se leggesse per gli altri, o con altri. Non ha altra possibilità che quella di leggere per se stesso. Come sempre è stato, di fatto: ha sempre letto per sé, certo. Ma è diverso adesso. Sente che non ci sono altri a cui potrebbe dire di quello che ha letto: si sono dissolti. Non li sa più immaginare. E dunque ha pensato di dover leggere, o rileggere, solo quello che lo interessa davvero, che in qualche modo serve a lui. Anche se ne avesse il tempo, perciò, probabilmente molti dei libri che ha accumulato non li leggerebbe mai. Anche da lì è venuta quest’idea di eliminarne buona parte. Ma è difficile: l’unico criterio dovrebbe essere quello di tenere solo i libri che hanno davvero contato per lui. I molti che ritiene importante aver letto, e i pochi che forse potrebbe aver senso leggere d’ora in poi.
E gli altri? regalarli? e a chi?
No, niente regali. A meno che… a meno che dei destinatari non si sappia nulla. Sì, però di lasciare in giro un po’ alla volta, uno qui uno là, i suoi libri, metti uno su una panchina dei giardini, un altro nella sala d’aspetto del dentista, un altro ancora sulla reticella di un vagone del treno, questo no. L’aveva colpito l’idea quando un’amica francese di Valeria, passata a trovarli di ritorno da qualche giorno di vacanza a Venezia, aveva detto che proprio quel giorno aveva finito di leggere un bel romanzo, in cui entrava anche Vivaldi, e quando Valeria le aveva chiesto di prestarglielo s’era dispiaciuta. Non poteva: una volta girata l’ultima pagina l’aveva lasciato sul tavolino del bar davanti a Santa Maria dei Miracoli. Per un momento gli era sembrato un gesto poetico, e divertente, molto francese insomma. Poi si era limitato a riconoscere che non era stato come buttarlo, quel libro, in un cestino dei rifiuti alla stazione. Ma era stato pur sempre un abbandono, un lasciarlo lì e andarsene sapendo che non ti può seguire, solo come un cane. Ecco, come un cane.
E anche portare i propri libri sul tavolo di qualche biblioteca di quartiere: fare bookcrossing, come dicono, o portarli le domeniche in cui fanno questa cosa, ci sono associazioni nate proprio per farlo… Be’, sì, quello non è abbandonarli come cani. È qualcosa di diverso… È come… esporli. Esporli come facevano coi bambini che non si poteva o non si voleva tenere. Prenderne altri in cambio poi… un baratto che gli sembra troppo disinvolto, in qualche modo spietato. Nei confronti del libro che avevi comprato, che avevi tenuto con te per anni, e poi via, come se fosse stato sempre e soltanto una cosa. Sono cose che si hanno, i libri, d’accordo: ma diverse dalle altre. Vive, a modo loro, grazie a te che continui a tenerle, anche se non le usi più. Sono stati lì per anni, i libri, taciturni, e tu te ne disfi come se fossero stati lì per caso, senza rapporti con i loro simili che tu gli hai scelto come vicini.
No, non sa come farà a dar via i suoi libri.

***

[…]

Valeria i giornali non li legge, però quel che succede lo sa e un’idea ce l’ha sempre. Poi, non è che si parli di politica, neanche con lei. Ma non perché lei lo trovi importuno, o noioso. È che lo lascia dire per qualche minuto e poi le viene quello sguardo, affettuoso ma vagamente ironico, che significa sì, bene, hai ragione, ma ci tieni davvero a queste cose? È come se gli dicesse, insomma, che certo, non sta facendo chiacchiere, ma fra loro… non è il caso. Loro lo sanno che anche parlare di politica è un modo per non parlare di sé, di come stanno davvero. E lui lo sente che c’è del vero, in questo. Lo sente anche se al momento ci resta male, e quel leggere poco o niente del tutto i giornali gli sembra un muro che lei ha tirato su fra loro. Ma lo sa, è vero: parlare di politica, in fondo, non è che la chiacchiera che lui – che le chiacchiere non le sopporta – predilige. Salvo rendersi conto, le rare volte che gli capita – e se capita è solo con chi la pensa come lui, naturalmente – che con tutto il suo leggere, libri e giornali, il più delle volte non ha argomenti diversi da chi legge molto poco, e magari gli si è rivolto con quel tu che leggi i giornali che lo fa sentire come uno stravagante, rimasto aggrappato a un’abitudine che non ha più senso, o come un animale in via di estinzione. Matteo, suo cognato, parla di automobili, il suocero, Giacomo, parlava di viti e caccia, lui di politica. Tutto qui. Forse è questo che è diventato, il parlare di politica.
giovani non ti badano proprio se vai su quegli argomenti, e quelli della sua età, anche quelli della sua idea, lasciano cadere: sappiamo com’è andata, dai, cosa stai lì a insistere… Anche perché, forse, parlar di politica li rimanda ai tempi in cui pensavano di diventare qualcosa di diverso da quello che sono. E oggi sono solo quelli che sono. Finita. Anche se non sono scontenti di quello che sono diventati. Finita, in ogni caso.
Quelli poi che non sono più giovani ma sono ancora lontani dai sessanta sessantacinque, quelli li raccomando. Sono i primi a infastidirsi di fronte a certi discorsi. Come i suoi cognati, per esempio. Ma di cosa parleranno, loro? Che cosa si diranno Matteo e Loredana? Non riesce neanche a immaginarseli a discutere di qualcosa. Che non sia la marca da scegliere o le calorie da mangiare. Da non mangiare anzi.
Ma in fin dei conti, cosa fanno di male questi due? A loro il mondo va bene così com’è. Ecco. Il fatto è che per lui quelli che la vedono così sono subito sospetti, persone da averci a che fare il minimo necessario. Coi clienti del negozio è un’altra cosa: lì van bene tutti, non c’è da fare i difficili. Ma fuori… È proprio rimasto quello che era, da giovane: o uno la pensa come lui – o quanto meno si vede che ci sta alle strette nel mondo-così-com’è – oppure è uno che non vale neanche la pena di parlarci. Perché – qui sta il punto – lui questo mondo lo considera provvisorio, sotto sotto, o meglio: non del tutto vero. Ce ne può essere un altro, quello giusto, ma è inutile cercarlo dietro o sotto questo che si vede, in cui si vive. Che cosa c’è dietro? Che cosa c’è sotto: erano frasi che si dicevano, che si leggevano sui giornali, quando erano giovani, e facevano politica. Ne discutevano ore. E adesso, molti di quelli che cercavano dietro, siccome si sono accorti di non aver trovato niente, o si sono stufati di cercare, pensano che non c’era niente da trovare: perché dietro, o sotto, non c’è niente, e così è andata a finire che la pensano proprio come quelli che han sempre pensato così e perciò non hanno mai cercato. Sono gli stessi che – all’avvicinarsi dei cinquanta, nella maggior parte dei casi – senza entrare a far parte della schiera di quelli che si usa definire voltagabbana, un cambiamento l’hanno comunque fatto: è come avessero creato una propria, personale bad company. Loro restano quelli che erano, ci mancherebbe: uomini di sinistra, di sinistra quella vera. Però… il lavoro è lavoro, il mondo è questo, devi pur sopravvivere in tutta questa merda… E allora si son costruiti una specie di personaggio parallelo che ha una disinvoltura e ostenta una spregiudicatezza da far invidia a quelli che banditi lo erano sempre stati, e dei loro principi da legge della giungla erano sempre andati orgogliosi.
Dire che sono dei cinici non è dirla tutta: sono dei cinici bugiardi, cinici a corrente alternata, perché li devi sentire come sanno battere i pugni sul tavolo quando – fra amici, amici fidati, di quelli di una volta – parlano di politica.
Lui no, cinico di sicuro non lo è diventato, né lo è mai stato. Scettico se mai. Passava per scettico in quegli anni della politica. Scettico e spocchioso, anche.
Era la maschera che da qualche tempo usava: per distinguersi dagli altri, perché non riusciva ad aderire alla loro fiducia. Perché lo vedeva: era una fiducia che, presi uno ad uno, non avevano, e che manifestavano invece se erano insieme. Nelle riunioni e ancora di più nelle manifestazioni.
Lui no, neanche in quelle occasioni credeva che le cose stessero davvero per cambiare da cima a fondo.
Non lo sapeva spiegare, ma non ci credeva a tutta quella foga di saper vedere che cosa c’era davvero dietro: ai discorsi dei politici, alle manovre degli industriali, alle guerre. Perfino a quello che facevi o pensavi. Quegli altri lo sentivano che lui non era del tutto dalla loro parte. Ed è andata a finire che lui da quella parte c’è ancora: perché – crede di averlo capito, adesso, non da molto tempo – lui pensava, anche se non abbastanza da dirlo, allora, che si dovesse cercare dentro. Né dietro né sotto: dentro. Dentro questo mondo, dentro gli uomini e le donne che ci sono, non in quelli che ci saranno. O che sono da qualche altra parte (il suo sentirsi spaesato, distante dagli altri, nei pochi cortei studenteschi cui ha partecipato: con quell’inneggiare a Al Fatah e al compagno Ho Chi Minh…). Lui pensava, senza sapere il perché – non lo saprebbe spiegare davvero neanche adesso, se è per quello – che l’altro mondo, quello giusto, è dentro questo che conosciamo e non ci piace. C’è già, è qui, vicino, anche se per arrivarci, per farlo venir fuori chissà cosa ci vuole. Un lavoro lunghissimo, difficile, che non si sa se riuscirà mai. Ma, almeno, scavare nel posto giusto: dove si è, non da un’altra parte. Non lo sa perché la pensa ancora così. Non sa pensarla diversamente, ad ogni modo.

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Recensioni

Da Bresciaoggi del 15 gennaio 2016.
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[BSO_F1 - 41] BSO/ST/PAG/ST02 ... 15/01/16

Da Gruppo 2009 del 6 gennaio 2016: link
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Da AB inverno 2015.
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Nessuno ha detto niente

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Diversi sono gli episodi e le situazioni da cui prendono spunto questi racconti, pensosi alcuni, altri venati di umorismo, ma percorsi da un tratto comune, rappresentato dall’atteggiamento di chi vi è coinvolto. Nessuno dice niente, per ragioni diverse: banale conformismo, o ritegno prudente; reticenza o indiff erenza, vera o apparente che sia.
Un non voler vedere, un non voler sapere: una scelta di diniego se non di rimozione, che si risolve comunque nell’astenersi dal prendere posizione, dal passare a un intervento attivo. In questo contesto, maturano però anche altre scelte, dettate da attitudini discrete alla separatezza, da private secessioni, da progressive adesioni alla pratica di un silenzio che non è assenza, né rinuncia alla parola. Un silenzio che somiglia a quello degli animali.

Sono i narratori che via via compaiono in questi racconti, essi stessi coinvolti nelle vicende che riferiscono, a dover constatare l’emergere di questa generalizzata e diff usa propensione a chiamarsi fuori, o comunque a tacere, e a farvi in qualche modo argine contrapponendo il loro bisogno di rendere testimonianza di quanto accade.
È proprio la loro incapacità di allinearsi a quella sorta di omertà volontaria che sembra pervadere i comportamenti collettivi a fornire un’occasione essenziale e a off rire una motivazione di fondo alla scrittura.
Perché scrivere – lo ricorda Maria Zambrano – “è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento eff ettivo, ma comunicabile”.

Quelle che seguono sono le pagine iniziali di alcuni dei racconti.

Pappataci

Guarda… una cosa mai successa. Ero lì che stiravo. Tutt’a un tratto ho sentito… come un prurito, ma fortissimo: un bruciore, ecco. Come una scottatura, ma da grattarsi, da non farcela più a star fermi. Ho dovuto metter giù il ferro da stiro: sulla gamba era, dietro il ginocchio, che sai che se c’è un posto brutto quando ti pungono le zanzare… be’, una roba che… mi sono seduta e ho cominciato a grattarmi che non la finivo più… sì, certo che lo so, figurati: ero io a dirtelo sempre, ti ricordi? lascia stare, non grattarti che se no è peggio. Ma questa era un’altra cosa: da non resistere, ecco. Sì, due o tre segni rossi, appena un po’ gonfi, niente di speciale, semplici tossole a guardarle. Eh no, è questo il fatto: che qui di zanzare non ne abbiamo mai avute, tant’è vero che non abbiamo mai avuto in casa niente… non so, zampironi, o spray… Ah sì? A te era capitato quando andavi a caccia col papà? Be’, però lì eravate nell’umido, si capisce che c’erano zanzare e roba del genere, ma qui… No ti dico, non ne ho viste: è questo il fatto. Di zanzare neanche l’ombra… Ma no, figurati se sono andata nelle ortiche… a fare? Sì, va be’, ciao, sì, andrò in farmacia a prendere qualcosa… ciao… ciao…
Come al solito ho messo giù il telefono tirando un sospirone, di sollievo e di rabbia anche. Se non la liquidavi, a un certo punto, lei era capace di andare avanti ore con una telefonata, anche quando non aveva niente da raccontare. Come adesso: mezz’ora perché un insetto l’aveva punta! Che palle! Ma del resto, se non le ho fatto la telefonata giornaliera… è come se non mi sentissi a posto. Hai bisogno di soffrire, mi dice Mara. No, dico io: si deve prevenire il rimorso, inutile dire, dopo: pensare che quando c’era non le telefonavo mai povera mamma e cose del genere.

Stanotte mi sono svegliato di soprassalto: l’alluce destro, sul lato interno. Mi ero sognato che camminavo sui sassi e mi facevano male. Invece nel sonno mi ero grattato, un piede contro l’altro, e adesso non ce la facevo a star fermo. Mi giravo, mi rigiravo. Cercavo di non grattarmi più. Mi son messo un po’ di saliva dove mi prudeva di più, ma non serviva a niente. Stavo svegliando anche Mara col mio agitarmi. Allora mi sono alzato, sono andato in bagno: niente, un piccolo rossore. Solo quando sono stato lì, a guardarmi l’alluce alla luce del lavandino mi è tornata in mente la telefonata di mia madre. Vuoi vedere che… Ma no. Lei è in città, a trecento chilometri da qui, nel caldo della città. Qui siamo al fresco, in montagna… Eppure…
Neanche l’acqua fresca mi dava sollievo. Ho cercato di distrarmi. Ma cosa volevi fare lì, in una camera d’albergo? Tornare a letto, al buio, neanche parlarne, con quel tormento. Ho preso il giallo che avevo iniziato e mi sono seduto sul water chiuso, a leggere. Ogni tanto il piede nel bidè, sotto l’acqua. Ma non mi passava neanche così. Sono rimasto in piedi due ore prima di poter tornare a stendermi e addormentarmi.

E’ cominciata così, per quel che mi ricordo. E non è più finita. Ma non è sempre andata allo stesso modo. Allora, nei primi tempi, e ancora per un bel po’ dopo, non si faceva che parlarne. Tutti ne parlavano, o ne scrivevano: i giornali, le tivù. Adesso no. Non è che sia vietato, ma…
Allora sembravano tutte coincidenze, casi strani, accaduti solo a te, e dunque volevi saperlo se erano capitati proprio a te soltanto. Spiacevoli, certo, ma più che altro roba da far due chiacchiere, un po’ come il tempo e le stagioni. Era tutto un ma pensa te, ma non dirmi, sai che anch’io eccetera.
Poi sono cominciati i pareri degli esperti. Primi gli entomologi naturalmente: eravamo diventati tutti esperti delle diverse famiglie di pappataci, una parola che avevo già sentito ma che non avevo mai usato: mi sembrava goffa…

***

La bufera

Si guardano negli occhi. Non s’era mai accorto che l’asino ha gli occhi così distanti, ai due lati del muso: adesso che ce l’ha proprio di fronte vede che sporgono, a sinistra e a destra. Eppure, anche se messi in questo modo, lo guardano fisso.
Gli occhi, dell’asino, nei suoi. I suoi in quelli dell’asino.
Stava passando, a testa bassa, e non si era accorto. E’ stato l’asino a venir giù per il prato, di corsa. Ha raggiunto il filo spinato nel punto dove era arrivato lui in quel momento, e ha fatto il suo raglio. Quell’urlo appena tentato che poi, nel sentirsi, sembra si perda d’animo e finisca in quel resto di grido sconsolato che suona come una rinuncia, quasi che l’asino si fosse una volta di più convinto che non è il caso di continuare, né di riprovare.
Ogni raglio di asino sembra l’ultimo. L’ultimo tentativo, una prova cui ancora una volta non ha saputo resistere ma che non farà più.
E’ stato dopo, che sono rimasti lì a guardarsi negli occhi. Dopo il raglio e dopo che l’uomo è salito di un passo sulla proda e tenendosi a un paletto del filo spinato ha raggiunto con la mano la fronte dell’asino e ce l’ha tenuta un momento.
Adesso sono lì uno di fronte all’altro. Fermi. Passano almeno due o tre minuti prima che l’animale distolga lo sguardo.
L’uomo sente che ha fatto male. Non doveva insistere, doveva smettere prima lui di guardar fisso negli occhi l’asino. Ma è andata così.
Gli dà ancora un carezza. Nota che è un asina, non un asino.
Le dice arrivederci, ad alta voce.
Poi riprende a salire, ma sente i tonfi degli zoccoli dell’animale che lo seguono: cammina poco dietro di lui, lungo il sentiero che le sue zampe hanno scavato parallelo alla strada, appena di là del filo spinato.
L’uomo, quando arriva all’angolo dove la recinzione finisce, si impone di non girarsi a guardare l’asina. Sa che è là che lo guarda andarsene.
E’ una cosa che conosce e non sopporta. Lui che se ne va e qualcuno che lo guarda andarsene, e il cuore che gli si fa pesante della pena di quell’andare. Come se fosse, nello stesso tempo, quello che se ne va ma anche quello che rimane e guarda l’altro allontanarsi.

***

San Rocco

Anche la mia è una casa uscendo dalla quale, al mattino, si può decidere se andare da una parte o dall’altra.
La mia come tutte le altre case, si potrebbe osservare. In realtà, ce ne sono che non si possono dire di questo genere. Ne ho abitato alcune dalle quali si usciva per andare sempre e soltanto da una parte. Quella stessa in cui sto la maggior parte del tempo, in città, è una di queste. Essendo ai margini del centro storico, è verso quello che invariabilmente portano i passi. Si può anche prendere dalla parte opposta, naturalmente, ma è solo un diversivo: alla prima traversa si torna dalla parte che si era creduto di non aver scelto quella mattina.
L’altra casa, quella di cui dicevo all’inizio, si trova invece in un piccolo paese, uno dei cinque o sei che stanno sul monte sopra il lago. Non ce n’è uno più importante dell’altro, anche se ognuno si ritiene il migliore, per il panorama di cui gode, o la tranquillità che vi regna, o per le sue vie lastricate più di recente, o ancora perché – unico fra tutti – ha un ufficio postale.
In realtà – per me almeno, che non sono nativo del luogo ma ospite, o tale mi sento, anche se vi abito per qualche mese all’anno da più di un trentennio – più dei paesi sono altri i punti di riferimento. Quando si esce, al mattino, si può decidere, come dicevo: se andare dalla parte di San Valentino o da quella di San Rocco.
Si può, ho scritto. Ma, a dire il vero, certe mattine si deve.
Ci sono giorni nei quali si sa quel che si vuole. O meglio: si fa, si va. Senza bisogno di volerlo. Altri, invece, nei quali l’obbligo di scegliere si presenta di continuo, importuno, e quando, perplesso, scegli, è come se un altro l’avesse fatto al posto tuo. Giorni nei quali una cosa equivale all’altra, e allora tanto varrebbe non farne nessuna. Ma appunto questa è l’unica scelta che appare inammissibile.
E allora esco, ma ancor prima di raggiungere il cancellino mi rendo conto che non so da quale parte prenderò. Sono ormai sulla soglia e continuo a non saperlo. So solo che non potrò avviarmi da una parte, poi ripensarci e tornare sui miei passi. Quello no. Non so perché, ma sento che quello sarebbe passare il segno, un’eventualità di cui non saprei valutare le conseguenze.
E’ un istante quello in cui la sospensione si risolve in decisione. Un istante tanto breve, infinitesimale, che nessuno che fosse lì a osservarmi potrebbe cogliere un’ombra d’incertezza. Tanto breve, del resto, che neanch’io potrei dire con sicurezza di aver deciso.

***

L’aquila

Una course ha detto: venerdì facciamo una course, indicando dietro di sé, oltre la finestra, le montagne che chiudono la valle. Dolomiti all’aspetto: campanili e sfasciumi di roccia, solcati da rare lingue verdi di erba aggrappata al terreno quasi verticale.
Una course. Col mio poco francese ho chiesto la differenza con la promenade, la bonne promenade che mi auguravano quando mi vedevano andare a far un giretto fino alla sorgente della Clarée, un’ora di cammino, o su al rifugio della Buffere, poco di più. E la differenza con la balade: si erano complimentati con me due giorni prima per la balade che avevo fatto, da solo. Sei ore. Lo chemin de ronde del monte Thabor, che partendo in alto sopra i loro tre chalets – baite, diremmo noi, che loro avevano riadattato – arriva fino in fondo alla valle, sotto a quelle rocce che sembrano via via spostarsi, l’una nascondendo l’altra e lasciandola poi riapparire, per restare comunque sempre inarrivabili, al di là del confine dei luoghi fatti per gli uomini.
Ecco: una course era andare là, su quelle rocce. Non una passeggiata come la promenade o una gita come la balade. Una course era di più. Era un’ascensione.
Mi sono subito reso conto, già mentre cercavo le parole per fare la domanda, che quella mia curiosità lessicale non era che un modo per differire un cortese ma fermo no. No: non è cosa per me. Magari un’autoironica ammissione dei miei limiti, o – perché no? – della mia paura: mi era sembrata questa la strada quando Marie, la moglie di Albert, aveva buttato lì un cauto mais… le vertiges: lei c’era andata lassù, col marito. Fino a pochi anni prima l’aveva accompagnato sempre, prima di rinunciare alle courses, e poi anche alle balades.
Lui però non ha raccolto, come si trattasse d’una obiezione tanto futile da non meritare neanche un cenno di risposta, e non m’ha dato tempo di confermare che sì: io soffro di vertigini e dunque…
Ha invece continuato in quel che stava dicendo, lasciando anzi il suo tono pacato e dimenticandosi di parlar lentamente, come faceva di solito, in modo da farsi capire anche da me, perché Francesca, mia moglie, il francese lo parla bene, ma io no.
Di quel che diceva ho colto solo un hors du sentièr, accompagnato dal gesto del braccio e della mano tenuti quasi a novanta gradi, e mi era sembrato un po’ sinistro il suo sorriso nel dire di questo andar fuori dal sentiero per arrampicarsi su pendii che era facile immaginare quanto ripidi anche solo guardandoli da lontano.
E cos’è successo? E’ successo che ho detto va bene. Non gli ho detto che lo ringraziavo della fiducia ma là non ci andavo, non me la sentivo di andarci. E non è che non l’ho detto solo perché per me era difficile da dire in francese, una roba del genere.
Ma cosa gli era saltato in mente di propormi, anzi, di decidere, un’impresa del genere? Lui stesso era qualche anno che non ne faceva di simili… E cosa diavolo mi aveva impedito di tirarmi indietro?

***

Racconti a Parigi

La domenica, la domenica pomeriggio, si vede chi è solo e chi no. O meglio: chi vive solo e chi vive con una moglie, con dei figli. Il che non implica necessariamente che sia solo, o che tale si senta.
Le persone sole, nei giorni feriali, camminano come tutti gli altri. E come tutti gli altri guardano davanti a sé. Verso una loro meta. La casa, il lavoro, un impegno preso in un certo posto con una certa persona. La domenica pomeriggio, invece, camminano lente, e si guardano in giro. Guardano attente – come a studiarli, a cercar di definire una differenza decisiva – quelli che non sono soli, o che tali non appaiono.
Anche questi ultimi camminano lenti, a differenza che nei giorni feriali, ma guardano avanti a sé, anche la domenica, non però verso una meta. Guardano avanti ma come non vedessero, o come se avessero già visto tutto. Un po’ come i ciechi, che non vedono niente, o non hanno mai visto niente, se ciechi dalla nascita, o vedono, a loro modo, qualcosa di completamente diverso da tutti gli altri. Che magari non è come non vedere niente.
Quelli che vanno a passeggio con la famiglia non mostrano attenzione. Tutt’altro. Sono distratti. Distratti da un vuoto che, a differenza di chi è solo, non possono immaginare di riempire.
Chi è solo può essere triste. Chi non è solo, ma tale si sente, no. E’ distratto, appunto Se è triste, non lo sa.
Mica male. Non importa se è vera questa cosa delle persone sole e non sole. Vorrebbe scrivere tutti pezzi così. Brevi. Semplici. Che però danno l’idea che sa vedere quello che c’è intorno.

***

Racconto n° otto

Stamattina, come ogni mattina, s’è svegliato poco prima delle sette.
E’ rimasto a letto una mezzora, ma non per cercare nei sogni di quella notte qualcosa di utile per i suoi racconti. Più di una volta gli era accaduto che aprendo gli occhi addirittura un’intera storia si fosse formata durante la notte nella sua mente, nella forma d’un sogno già disposto in modo da essere trascritto. O almeno si era ritrovato con uno spunto: il sogno gli aveva portato una figura, una voce, un luogo, e sempre, ad accompagnarli, un senso di consolazione o di disgusto. Niente mezze misure: conforto o nausea. Senza un perché. Ed era capitato che cercare quel perché diventasse scrivere un racconto.
Ancor prima di alzarsi trascriveva allora sui suoi foglietti – ne teneva ovunque, anche sul comodino naturalmente, o più spesso sul letto stesso, dalla parte lasciata vuota dalla moglie – quel che aveva in testa, poche parole, spesso nella forma di un incipit, e solo dopo, magari non quella stessa mattina, gli riusciva di farne nascere qualcosa. Era, questa dei sogni, una risorsa di cui si era compiaciuto di parlare in pubblico, anche durante le presentazioni dei suoi libri, e s’era accorto che faceva sempre effetto. Creava un ponte fra lui e chi ascoltava – tutti dormono, e sognano – ma nello stesso tempo sottolineava la sua diversità, l’unicità del suo talento. Solo lui sapeva mettere a frutto quel che il sonno portava anche agli altri.
Non cerca più, da parecchio tempo, fra i brandelli di sogni che gli restano. Non fanno a tempo a comparire e già gli si squagliano nella memoria. Neanche brandelli. Sensazioni. Sogna ma è come non sognasse più. Le benzodiazepine arruffano i pensieri della notte e li fanno d’una materia densa e viscida, grigiastra, che si disperde alla prima luce.
Non dormire più non era meglio, del resto. Oltre a non sognare si ritrovava poi a cadere da un pisolino all’altro durante il giorno. La testa vuota fra uno sbadiglio e l’altro. Del tutto sprovvisto di quella fiducia benevola, verso di sé, senza la quale non si può scrivere nulla, neanche pensare di poterlo fare. Neanche desiderarlo.


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Recensioni

Dal Giornale di Brescia dell’8 giugno 2015.
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Da Bresciaoggi del 3 ottobre 2015.
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Dal Corriere della Sera del 10 ottobre 2015.
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Pensiero del Presente / Il lavoro nella cultura e nell’immaginario attuali*

*Intervento al Convegno Il lavoro che trasforma il mondo, organizzato nell’ambito della mostra promossa dalla Cgil di Brescia CapoLavoro. Arte e impegno sociale nella cultura italiana attraverso il Novecento (Brescia, Museo di Santa Giulia, 10 ottobre-10 dicembre 2014)

Oltre la dimensione economica e tecnica che lo connota, al lavoro ne va riconosciuta una culturale: la sua considerazione, la sua promozione, il ritenerlo un diritto non negoziabile – e di più: una delle condizioni che fondano la relazione con gli altri – non dipendono solo dal grado di sviluppo tecnologico, dall’andamento dell’economia e dallo stato dei rapporti fra le parti sociali e le loro rappresentanze, ma anche dal posto che esso occupa nella mentalità diffusa.
Indipendentemente dal fatto che il lavoro dei contadini di pianura e di montagna ha costruito grande parte del paesaggio e che il lavoro degli artigiani ha fornito i presupposti di gran parte del nostro vivere quotidiano e continua a svolgere in questo senso un ruolo essenziale assicurandone la continuità, è innegabile che il lavoro che trasforma il mondo – stando all’immagine che il titolo di questo incontro evoca – rimanda al lavoro industriale, al lavoro che maneggia la materia di cui il mondo è fatto cambiandone natura e forma. Ma è proprio l’immagine del lavoro industriale che oggi evidenzia i segni di un appannamento della sua presenza nel sentire collettivo. Un appannamento che torna in questi ultimi tempi a farsi divaricazione dei modi di rappresentare il lavoro, il lavoro operaio in particolare: per gli uni componente e per molti aspetti matrice delle sperimentazioni della democrazia, per altri residuo di una società scomparsa (si pensi a come si parla degli anni Settanta, quasi fossero una sorta di preistoria, quasi non appartenessero alla storia del paese, e non fossero ancora memoria viva).

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La forma e il volto della città / L’Albero della vita e altre storie

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È bene dirlo all’inizio. Se fossi vissuto negli anni ’80 dell’Ottocento, e per di più a Parigi, temo che sarei stato fra coloro che guardarono con diffidenza o aperta ostilità la costruzione della Tour Eiffel, emblema ingegneresco dell’Esposizione Universale del 1889. Non mi sarei trovato in cattiva compagnia, c’è da dire. Guy de Maupassant e Alexandre Dumas figlio si schierarono senza remore contro “l’inutile e mostruosa Tour Eiffel”. Quanto ai pittori, se Seurat manifestò la sua approvazione ritraendola quando ancora le mancava l’ultimo piano, Pissarro ci tenne a non raffigurarla mai nei suoi quadri.
Difficile comunque, oggi, confondersi fra quei parigini – una sparuta minoranza di certo – che si ostinano a chiamare la Tour che domina la loro città “l’asparago di ferro”. Come non essere d’accordo con un maître à penser, certo non di bocca buona, come Roland Barthes, al quale la creazione di Gustave Eiffel appariva un “edificio inutile e insostituibile, testimone di un secolo e monumento sempre nuovo, oggetto inimitabile e incessantemente riprodotto”?

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Passeggiando nei «Giardini d’inverno», sulle orme di Calvino. Una lettura dei racconti di Paola Baratto*.

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(* Paola Baratto, Giardini d’inverno, Manni 2014)

Da dove viene il senso di leggerezza – e di conforto, vorrei dire: di quieta fiducia – che ci resta dopo la lettura di questi racconti, come dopo una passeggiata. breve e ristoratrice? Non certo dal fatto che si tratti di una lettura scacciapensieri. E perché conserviamo una simpatia solidale con i personaggi che abbiamo incontrato? Personaggi che sono lontanissimi dai modelli di vincenti che molto spesso ci vengono proposti più o meno esplicitamente come termini di identificazione, e che dichiarano questa loro estraneità sin dai nomi che portano, nomi comuni (Nino, Irma, Bianca, Fausto, Giulia, Adele) o che suonano addirittura un po’ prosaici, fuoricorso (Biagio, Martino, Gabriele), quasi se ne fosse voluto sottolineare la non eccezionalità. Uomini e donne miti, modesti, e tuttavia animati da una ferma consapevolezza della propria diversità e della necessità di proteggerla. Con discrezione. Ecco la parola: sembrano personaggi ritagliati da un libro, recensito da “La Repubblica” qualche mese fa ma non ancora tradotto in italiano: La discrétion, di Pierre Zaoui, pubblicato dalle parigine Édition Autrement. Vi si parla di persone che praticano “una forma felice e necessaria di resistenzan. (…) lontana dalla dissimulazione, dal calcolo prudente, o dalla paura d’esser vista, l’anima discreta offre una giusta presenza al mondo”. La discrezione: “l’esperienza di un tempo modesto che basta a se stesso”. Non una qualità da esibire, né un atteggiamento che possa generalizzarsi, dal momento che si tratta di un andar controcorrente: “la nostra modernità – sostiene Zaoui – non pare caratterizzarsi solo per una lotta sfrenata per il riconoscimento e la visibilità, ma in pari grado per una lotta sotterrane, più calma ma molto tenace, per l’anonimato et l’invisibilità.” Un fare sotterraneo, deciso ma tranquillo, non appariscente: non sono avventure eclatanti quelle che i personaggi di Giardini d’inverno vivono. Vicende, piuttosto, nelle quali si rapprende uno stile di vita in grado di farsi testimonianza che contraddice la banalità dei discorsi e il conformismo dei comportamenti, e per questo suscita timore. Perché “ciò che è banale ha l’unico merito di essere rassicurante”, e ciò che non lo è non solo può inquietare, ma suscitare osservazioni sarcastiche, sdegnose prese di distanza, o addirittura reazioni ostili (la signora che veste “come se fosse sgusciata da una cartolina seppiata degli inizi del Novecento” “non dovrebbero lasciarla andare in giro”, e l’uomo che si costruisce una casa piena di finestre e lucernari, vedrà la sua “casa di vetro” presa a sassate).
Man mano che si procede nella lettura si comincia a sentire una medesima aria circolare fra le pagine dei racconti che si susseguono, un significato che li accomuna, un gioco di rimandi che li tiene saldamente insieme, senza che si ricorra all’espediente ormai collaudato di far incontrare, a un certo punto, tutti i personaggi, come avviene in tanti film, francesi soprattutto. I protagonisti di Giardini d’inverno marciano ognuno per la propria strada. Solo in un paio di casi si incrociano, comparendo uno nel racconto dell’altro ma senza interferire più di tanto. Per il resto, si attengono a una coerenza che ogni inizio di racconto ci presenta come un tratto di lungo periodo, da tempo praticata. Non enunciata, da chi scrive, ma che sta al lettore intuire dai gesti e dalle parole, poche, dei personaggi.
Si tratta di “collezionisti” nei quattro racconti della prima sezione, di sognatori o abitanti di “altrimondi” nella seconda, di ascoltatori attenti della “lingua delle cose mute” nell’ultima. Tutta gente che nello scegliere tra l’avere e l’essere non hanno dubbi. Non occorre possederle le case in cui ci piacerebbe abitare: basta assegnare ad ognuna il mese in cui preferiremmo farlo. E sono del tutto immateriali i pezzi che insegue la collezionista di stagioni, riconoscendole nel suono struggente dei garriti delle rondini, in profumi e odori evanescenti, nella sensazione tattile del velluto di muschio che avvolge il tronco di una pianta: non è la contemplazione della caducità che la donna coltiva, ma proprio il suo opposto. Lei, delle stagioni cerca “quello che non cambia”: nel loro divenire scova l’essere. L’essere di un tempo ciclico, e già questo rappresenta a ben vedere uno scarto, non una contestazione ma uno scostamento netto rispetto al tempo rettilineo che imperativamente ci domina, sin nel profondo.
Così come dilagante e contagioso è l’uso distratto, omologato delle parole: occorre riconoscerne la fisionomia, verificarne la rispondenza con noi stessi, apprezzarne addirittura la carica erotica per farne oggetto di collezione, e in questo modo contrastarne l’usura. Ma è altrettanto possibile e motivato raccogliere invece sassi, uno diverso dall’altro e anche per questo suscettibili di farsi segno della unicità di ognuno di noi, memoria inconfondibile di chi se n’è andato. E’ difficile non ritrovare in questa sensibilità, che ravvede significati umani anche nell’inorganico, una suggestione analoga a quella che doveva aver mosso l’anonimo collezionista di sabbia – sabbia grigia del Balaton, bianchissima del Siam, rossa del Senegal – la cui opera Italo Calvino aveva visto a Parigi (e dove se no… Parigi è punto di riferimento ricorrente nei racconti di cui parliamo). Un collezionista, quello, che è inevitabile sentire fratello della Irma che raccoglie sassi. Un collezionista, spiega Calvino, che “sapeva dove voleva arrivare: forse proprio ad allontanare da sé il frastuono delle sensazioni deformanti e aggressive, il vento confuso del vissuto”.
Ma in fondo non è proprio questo l’orizzonte non solo di Cuore di pietre, ma anche degli altri racconti di Paola Baratto? Non è questo il filo che ne fa un unico romanzo? “Come nelle poesie e nelle canzoni le rime scandiscono il ritmo, così nelle narrazioni in prosa ci sono eventi che rimano fra loro”: è lo stesso Calvino a ricordarcelo in una delle sue Lezioni, quella sulla rapidità.
Senza trascurare altri fili, certamente. Situazioni che tornano e via via si precisano nella ricchezza dei loro significati. Il silenzio innanzitutto. Non un vuoto, tutt’altro, essendo che “se la musica è ordita da innumerevoli combinazioni di note, lo stesso vale per il silenzio” (parole che sembrano quelle di Mario Brunello, nel suo trattatello recentemente dedicato, appunto, al silenzio).
Basta saperlo ascoltare, il silenzio. Sarà allora possibile rendersi conto che “anche il più piccolo frutto maturo possiede un suo relativo fragore, nell’istante in cui spacca la buccia”, e che non c’è “nulla di più variegato e multiforme del tacere degli esseri umani” (mi torna in mente quell’aneddoto dell’incontro fra Borges, ormai cieco, e Calvino, che la reverenza per il maestro rende più taciturno del solito: “L’ho riconosciuto dal suo silenzio”, risponde più tardi Borges a chi gli domanda come ha fatto a capire che fra le persone che erano andate a visitarlo c’era anche lo scrittore italiano).
Il silenzio, parente stretto della trasparenza (“il vetro è trasparente come il silenzio, tutto lo attraversa”), ma anche delle ombre, “quel risvolto inseparabile dai corpi, dalle cose”, presenza silenziosa, “gemello muto” degli esseri viventi. E’ fotografando le ombre dei suoi clienti che Adele ne coglie i sentimenti inespressi, o inconfessabili, così come è guardando attraverso la nebbia che avvolge la sua casa di pianura che Fausto impara a “leggere tra le righe delle frasi dette per calcolo, per compiacenza, per ipocrisia”.
Un altro tratto comune ai protagonisti: la calma, la lentezza. Di fronte ai capolavori pittorici conservati nei musei Bianca – che non è una monaca, ma un’”ispettrice in ambito turistico”, costretta dal suo lavoro “a spostarsi da una città all’altra”- si concedeva d’indugiare”, “si godeva la pausa”, e uscita dal museo amava il “passeggio senza meta”, la flânerie, ma anche il sostare “dietro le vetrine scintillanti d’una brasserie, ch’era poi, ugualmente, una forma di flânerie sedentaria”. E’ questa propensione alla lentezza che le permette di abitare i quadri che ama, di “inoltrarsi dentro una dimensione temporale cristallizzata, esclusa dall’ingranaggio inarrestabile dello scorrere”.
Non solo le opere d’arte, però, rappresentano interlocutori essenziali. Anche le cose suscitano una pietas che sa interpretare la loro “lingua muta”, e fra di esse soprattutto gli “oggetti vecchi, ossidati, opachi” (come capitava a Brecht: “Fra tutti gli oggetti i più cari”, notava, “sono per me quelli usati. Storti agli orli e ammaccati…): “gli utensili dozzinali d’uso quotidiano” per i quali Gabriele sente “una specie di pena” e che esita a buttar via, che raccoglie addirittura quando li vede abbandonati vicino a un cassonetto dei rifiuti, “relitti domestici senza più domus”.
Motivi e atteggiamenti che, si diceva, danno unità ai dodici racconti (solo dodici purtroppo), ma che non si limitano a questo. O meglio: se questo è il loro effetto è perché non sono che gli aspetti di una stessa critica. Una critica che non si vuol argomentare, che resta lontanissima da ogni intento di persuasione e ancor meno di polemica. Si direbbe che l’autrice condivida la propensione di Adele, la “fotografa delle ombre”, che “da qualche tempo disertava la chiarezza e preferiva lasciare ad altri l’incombenza spugnosa delle spiegazioni”. Non è lo sguardo che si accanisce criticamente quello che si è indotti da questa lettura a rivolgere al nostro mondo. E’ invece uno sguardo che sa cogliere qui dove siamo l’altrove di cui avvertiamo un bisogno vitale. Un altrove in cui regnano – ripetiamolo – il silenzio, la trasparenza, le ombre, la lentezza: basta pensarne il contrario e si ricavano, per contrasto, i caratteri del mondo in cui viviamo: il rumore e la chiacchiera, l’ opacità e insieme la luce cruda e abbagliante che illumina le merci (cioè tutto, tendenzialmente), la velocità ossessiva, la non affezione per le cose che usiamo e gettiamo.
Uno sguardo capace dunque di pazienza e fermezza insieme, di spietatezza e dedizione allo stesso tempo. Ma che soprattutto sa rivolgersi sempre indirettamente a ciò che osserva. Allo stesso modo di Perseo, che non posa i suoi occhi “sul volto della Gorgone ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo”, in ciò offrendoci “un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione di metodo da seguire scrivendo”: “è sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo – siamo alla Lezione sulla leggerezza adesso – ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello.”
Ecco. Prendere le distanze dalla realtà del mondo è forse il modo (l’unico, oggi?) per non nascondersi l’inevitabilità di portarne il fardello.
Gira e rigira è sempre a Calvino che mi riportano i passi che muovo in questi Giardini d’inverno, a conferma del fatto che “la leggerezza è qualcosa che si crea nella scrittura”, in una scrittura come questa, prova convincente e viva della “funzione esistenziale” che può avere la letteratura quando si fa “reazione al peso del vivere”.
E’ solo a questo punto che quel senso di conforto, e di pacata fiducia, di cui dicevo all’inizio mi si chiarisce, e posso individuarne la fonte: nella voce che trascorre in queste pagine. La voce che con parsimonia i personaggi fanno sentire è la stessa che guida la scrittura di questi racconti. Apparentemente svagata, mai assertiva, e pure decisa nella sua scelta.
Ancora Calvino, quello delle Città invisibili stavolta: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
È questo secondo modo che Paola Baratto ha scelto. Di qui viene la voce che ci ha dato questi sommessi, poetici minima moralia.