La chiave rubata

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Il campanello di casa emise un timidissimo squillo, come se fosse stato sfiorato per errore.
Petri, che si era appena seduto col giornale aperto, alzò un sopracciglio. Forse si era sbagliato, non aspettava nessuno. Continuò a sfogliare il giornale e fece per accendersi una sigaretta. Le aveva dimenticate nella tasca della giacca che aveva appesa nell’armadio in ingresso. Si alzò e andò a prenderle e stava facendo scattare l’accendino quando udì bussare piano alla porta. Se non si fosse trovato lì, certo non avrebbe sentito. Due o tre colpetti lievissimi, come di chi, con grande discrezione, non voglia disturbare o sia convinto che in casa non ci sia nessuno.
Bussarono di nuovo e lui, con la sigaretta che gli penzolava dal labbro, socchiuse la porta, trovandosi di fronte a un viso femminile che gli diceva sicuramente qualcosa, ma che non riusciva a collocare esattamente.
Lei colse immediatamente la sua perplessità.
“Non mi riconosce dottor Petri? Sono Carla Gualazzini, la proprietaria di Minou… è vero che sono passati parecchi mesi ma…”.
“Cara signora” esclamò Petri “certo che la riconosco, è il suo splendido aspetto che per un momento mi aveva ingannato, mi scusi, volevo dire che lei mi pare la sorella minore della signora che ho conosciuto qualche mese fa, non che allora mi fosse sembrata più anziana, ma…” e, come qualche volta gli accadeva, si infilò in una complicatissima spiegazione, fatta di distinguo e di precisazioni, dalla quale non sarebbe più riuscito a districarsi se la vedova, che lo ascoltava sorridendo, non fosse venuta in suo soccorso.
“Lei è troppo gentile dottore: mi pare di capire che mi trova ringiovanita (e Petri assentì convinto) e la cosa non può che farmi piacere. In fin dei conti sono una donna e tutte le donne sono sensibili ai complimenti… Ma potrei ricambiarglieli, anche lei ha un ottimo aspetto. Evidentemente il tempo che passa fa bene ad entrambi…”.
Petri si era ammutolito e continuava a non credere ai suoi occhi, perché quella che aveva di fronte era davvero un’altra persona, che pareva più giovane di dieci o quindici anni rispetto a quella che lui ricordava, che lo aveva fatto ammattire per la scomparsa di Minou, la sua gatta, e che non aveva più avuto occasione di incontrare.
Si riscosse rendendosi conto che la stava tenendo sulla porta e la invitò ad entrare.
“Grazie dottore, non vorrei disturbarla…” disse la signora e lui pensò che in questo caso avrebbe anche potuto risparmiarsi dal suonare il campanello e dal bussare alla porta.
“Ma cosa dice? Disturbarmi? Stavo giusto per prepararmi un caffè e se posso…”.
“Grazie, lo accetto volentieri” rispose lei che evidentemente non aspettava altro e si lasciò guidare in soggiorno, sedendosi compostamente sulla poltrona che lui le indicava.
“Mi scusi un momento, vado a preparare la caffettiera”. Lo fece con la massima attenzione, a scanso di brutte figure e ricordò che le tazzine buone stavano di là, ma si sentiva imbarazzato a tornarci per prenderle. Decise che le tazze che usava con Anna potevano andar bene e, dopo aver acceso il fornello, tornò in soggiorno, sedendosi a sua volta.
“Un paio di minuti ed è pronto”.
La signora assentì sorridendo, mentre lui ora la considerava con maggior attenzione. A parte l’abbigliamento, decisamente elegante e quasi giovanile, era il viso, l’acconciatura dei capelli, il loro colore (li ricordava argentei, raccolti a crocchia) a sconcertarlo. Perché adesso i capelli erano biondo cenere, anche se la crocchia era rimasta ma sottolineata da un paio di spilloni, e gli occhi azzurri spiccavano in un volto quasi privo di rughe, con la pelle di una sfumatura che gli parve dorata. Un vero miracolo, pensò, mentre il suo sguardo, senza volerlo, si abbassava sulle gambe della sua ospite, che erano raccolte di sghembo, in una postura che gli parve particolarmente aggraziata.
Cinquant’anni, non di più, dimostra cinquant’anni questo diavolo di donna, stava pensando lui che ancora non si capacitava di quella trasformazione.
“Il caffè” disse lei.
“Come dice?” chiese Petri.
“Il caffè” ripeté la vedova Gualazzini, “temo che stia debordando…”
Petri ritornò tra i vivi: la moka, la si poteva sentire attraverso la porta, brontolava incollerita e un puzzo di bruciato aveva invaso il soggiorno.
“Accidenti a me” gridò Petri balzando dalla poltrona “credo di aver combinato un guaio.”
Non si sbagliava. Il caffè era uscito quasi del tutto dalla moka, colando sul piano di cottura e spegnendo la fiamma.
“Addio caffè…” mormorò sconsolato davanti a quel mezzo disastro e si guardò in giro: un’altra caffettiera c’era sicuramente e la trovò subito, nel credenzino di sinistra. Solo che la cucina a gas avrebbe dovuto essere ripulita, così come i beccucci del fornello e stava pensando a come organizzarsi, non trovando di meglio, per il momento, che spalancare la finestra, quando, dietro di sé sentì la voce della signora Carla.
“Uomini…” disse con voce soave, ”se ogni tanto non combinaste qualche guaio non sareste così simpatici… Permette che faccia io?”.
“Gliene sarei gratissimo signora” rispose lui e le porse la nuova caffettiera. Il barattolo del caffè era rimasto sul tavolo.
“Lei adesso se ne va di là e si mette comodo in poltrona. Penso a tutto io… tranquillo, trovo anche le tazze, so dove le tiene sua moglie”.
Se ne tornò in soggiorno un po’ mortificato. Lo imbarazzava anche quello strano tono confidenziale della vedova che, come il suo aspetto, gli era del tutto sconosciuto. Poi capì di essere stato trattato con la benevolenza che si usa con un bambino maldestro e pensò di avere destato il senso materno della signora Carla. L’una ipotesi valeva l’altra e nessuna delle due aumentò la sua autostima.
La vedova entrò in punta di piedi: aveva scovato anche un vassoio che posò su un tavolino.
Petri aveva precipitosamente schiacciato il mozzicone nel posacenere.
“Ma che fa dottore…” disse lei, “non avrà per caso spento la sigaretta per me? E’ in casa sua e… no, no” proseguì zittendo Petri che stava per interromperla “non intendevo dire che può fumare per questa ragione, mi farebbe un torto a pensarlo, è che il fumo non mi dà più il minimo fastidio… sono le stranezze della vita. Tollero benissimo il fumo e, non lo indovinerebbe mai, sono diventata allergica ai gatti: inizio a starnutire e non c’è verso di porvi rimedio…”.
“E Minou?” chiese Petri.
“Ho dovuto disfarmene purtroppo, non le dico la sofferenza, ma a un certo punto o io o lei, non ho avuto scelta… l’ho affidata alla signora del secondo piano…”
“Capisco…” mormorò Petri, chiedendosi le ragioni per cui quell’allergia non le fosse sorta qualche mese prima, con buona pace sua, della vedova, di Minou e magari di qualcun altro, col pensiero che gli tornava a due bambini col grembiulino azzurro nel cui abbaino Minou, vagando sui tetti si era rifugiata. Trovandovi vitto e alloggio.
“Purtroppo questa volta mi è accaduto qualcosa di molto più grave…” disse dopo un momento di silenzio la donna, che aveva aspettato inutilmente un suo incoraggiamento.
Petri, infatti, bevuto il caffè e forte del lasciapassare appena ricevuto, si era acceso una sigaretta e se la stava fumando piano, in attesa della nuova tegola che gli sarebbe caduta in testa, certo com’era che l’inaspettata visita della sua vicina non preludesse a nulla di buono.
Fu la vedova a riprendere il discorso.
“Questa volta dottore non si tratta di una banalità come la volta scorsa…”e Petri si rabbuiò, perché la scomparsa della gatta, per come gliel’aveva presentata la Gualazzini, tutto gli era parso fuor che una banalità. L’avrebbe volentieri strozzata.
“Questa volta si tratta del mio Fattori, lo ricorda dottor Petri?”.
“Il lanciere a cavallo” disse lui che ricordava benissimo quella delizia. “Non mi dica che è scomparso anche lui…”.
“Purtroppo sì dottore, mi è stato rubato”.
“E quando ha subito il furto? Immagino che i ladri non si siano limitati al Fattori…”.
“E invece è andata proprio così. E’ sparito il Fattori e nient’altro”.
Petri rimase un momento perplesso.
“Allora si tratta di un furto su commissione, di un furto estremamente mirato, non v’è dubbio,perché anche ammettendo che si trattasse di ladri qualificati non ci si frega un Fattori lasciando intatto un Signorini appeso all’altra parete, perché il Signorini almeno lo hanno lasciato mi pare…”.
“Certamente e la cosa aveva dato da pensare anche a me, ma forse una spiegazione l’ho trovata”.
“Vale a dire?”.
“Il Fattori era una tavoletta quindici per venti, qualcosa che si può nascondere anche sotto una giacca, mentre il Signorini no, è una tela di tutt’altre dimensioni….non pare anche a lei?”.
“Non so che dire: può essere, ma la cosa non mi convince. Se una tela è troppo ingombrante, adesso le misure non me le ricordo, i ladri la sfilano o addirittura la tagliano e l’arrotolano, non c’è bisogno di portarsi via il quadro incorniciato…E inoltre dovremmo pensare a un collezionista di Fattori, un collezionista particolarmente esclusivo… tutto può essere,ma mi sembra improbabile…Piuttosto, mi dica come sono entrati: hanno scassinato la porta o sono passati dal balcone? E il furto è avvenuto di giorno o di notte? A proposito, non mi ha ancora detto quando è avvenuto il furto, spero che lo abbia immediatamente denunciato..”.
“Il furto risale a una decina di giorni fa, ma la denunzia non l’ho ancora fatta…”.
“Ma cosa aspetta, benedetta donna?”esclamò Petri. “Che speranze può avere di ritrovarlo se non presenta la denuncia? Era almeno assicurato?”.
“Si, inizialmente per una bazzecola: trenta milioni, che credo non siano neanche un decimo del suo valore. Si trattava di un’assicurazione che avevo fatto più di vent’anni fa, quando venne a mancare mio marito. Posso solo dire che nella disgrazia ho avuto un pizzico di fortuna, un presentimento forse, perché qualche mese fa, sobbarcandomi un premio non indifferente, ho aggiornato l’assicurazione, portandola a centomila euro per il Fattori e a centocinquantamila per il Signorini….anche se credo che si tratti di valori ancora inferiori a quelli reali…”.
“Si, ho capito, ho capito” la interruppe Petri che faticava a nascondere il suo disappunto “certo che adesso potrebbe valere anche il doppio, ma se lei non denunzia il furto non recupererà neanche quello. Mi vuole spiegare perché non l’ha ancora fatto? Abbia pazienza signora Guazzalini (Gualazzini, precisò lei senza che Petri se ne desse per inteso), abbia pazienza, capisco che per la gatta avesse ritegno a rivolgersi alla Polizia e abbia preferito parlare con me, ma in questo caso che cosa posso fare io? Mettermi a rincorrere tutti i ladri o i ricettatori della città o della regione? Siamo seri, queste sono cose che fa la Polizia, che magari per la scomparsa di un gatto le fa, mi scusi, una pernacchia, ma per il furto di un’opera d’arte ci si mette d’impegno. Lei invece fa passare dieci giorni e non trova niente di meglio da fare che venire da me. Non capisco, non capisco proprio…”.
“Ha ragione dottore, ha mille ragioni, ma non si inquieti, la prego: io da lei non sono venuta per chiederle di mettersi a fare delle indagini, non sono così sciocca. Da lei voglio solo un consiglio”.
“Un consiglio?” chiese Petri a bocca aperta. “Ma il consiglio gliel’ho già dato. Denunzi il furto, lo faccia subito, magari giustificando il ritardo col fatto che…veda un po’ lei come giustificarlo, questi sono affari suoi e non mi parrebbe corretto intromettermi, ma sulla denunzia immediata non ho dubbi. Se lei non denuncia il furto perde quadro e risarcimento assicurativo, questo mi pare chiaro. Se invece sporge la denunzia ne porta una copia alla sua assicurazione e, da una parte o dall’altra, qualcosa ottiene”.
La vedova Gualazzini rimase in silenzio un momento e poi fece un lungo sospiro.

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Una lettera d’amore

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La donna stava davanti al banco del verduraio e, strizzando gli occhi dietro le spesse lenti da miope, cercava di decifrare i prezzi, scritti a mano, in euro, sui cartellini che spuntavano dalle cassette dei pomodori, delle zucchine, dei fagiolini.
La sua mente viaggiava come una calcolatrice, traducendo gli euro in lire, facendo i conti con quanto le restava dopo aver già acquistato un pezzo di fegato, due etti di formaggio stagionato e mezzo chilo di pane. La frutta l’aveva già scartata in partenza: i prezzi erano proibitivi e aveva deciso che non se la poteva permettere, neppure una di quelle pesche bianche che le ricordavano la sua infanzia, riempiendola di un languore struggente.
Il padrone, nonostante non vi fossero altri clienti, pareva impaziente.
Scelse quattro zucchine e una manciata di fagiolini. Di patate ne aveva ancora a casa e le potevano bastare per almeno una settimana.
“Due euro e ottanta” disse l’uomo e lei infilò la mano nella borsa per prendere il portafoglio, rendendosi conto, con un tuffo al cuore, che non aveva chiuso la cerniera e la borsa era aperta.
Rovistò febbrilmente all’interno: il portafoglio era sparito.
Gli occhi le si velarono di lacrime.
“Me l’hanno rubato” disse piano e il verduraio la guardò con aria un po’ scettica.
“Cosa le hanno rubato?”.
“Il portafoglio, mi ero dimenticata la borsetta aperta……” e tese all’uomo il cartoccio, per restituirglielo.
L’uomo ebbe una piccola esitazione.
Quella donna, una zitella intorno alla quarantina, lui di vista la conosceva, l’aveva già classificata sulla base della spesa che, di quando in quando, faceva al suo banco. Doveva abitare da quelle parti. Vide le lacrime che le avevano inumidito gli occhi.
“Tenga pure, lo segno, mi paga la prossima volta” e, quasi a forza, le restituì zucchine e fagiolini.
Per i venditori di frutta e verdura erano tempi grassi, di quella donna si fidava e al più, non ebbe bisogno di fare grandi calcoli, ci avrebbe rimesso meno di un euro.

Paolino non aveva neppure vent’anni, ma era già un tossico strafatto.
Suo padre, un geometra del comune, aveva pazientato per mesi, poi aveva ceduto alla disperazione. Ormai quel ragazzo, che aveva piantato la scuola e vagava per casa come uno zombi, perlomeno nei rari momenti in cui c’era, non poteva più tollerarlo. Ai soldi che sparivano regolarmente dalle sue tasche e da quelle della moglie, si erano aggiunti gli oggetti di qualche valore, i cucchiaini d’argento, un vassoio, i libri, addirittura un paio di cappotti che Paolino certamente rivendeva per quattro soldi, quanto gli occorreva per farsi una dose.
Il buon geometra le aveva provate tutte ed era arrivato al capolinea: di figli ne aveva altri due, una ragazza di diciassette anni e una, tardiva, di otto e non riusciva più a sopportare sua moglie, perennemente con gli occhi gonfi, che dietro a quel figlio ci moriva.
“Qui” si disse “è una questione di sopravvivenza, o Paolino o il resto della famiglia” e, fatti due conti, col cuore che gli sanguinava, scelse il resto della famiglia e mise Paolino alla porta, dicendogli espressamente che per lui era morto e non avrebbe mai voluto saperne più nulla.
La moglie passò intere nottate a singhiozzare ma finì col farsene una ragione, anche perché l’atmosfera era cambiate e le due ragazze parevano rifiorite.
La vita per Paolino fu dura, ma era un ragazzo che di risorse ne aveva e in poco tempo diventò un esperto borseggiatore, individuando le due aree privilegiate che gli consentivano di sopravvivere e di placare il demone che aveva dentro: i tram, affollatissimi nelle ore di punta e i mercati all’aperto. Era facilissimo sfilare un portafoglio a un vecchio, magari dopo avergli inciso con una lametta la tasca posteriore dei pantaloni o trovare una borsa aperta in cui infilare una mano senza che la donna se ne accorgesse.
Quel portafoglio vecchio e sgualcito non gli risolveva la situazione: in tutto vi pescò tra biglietti e monete una cinquantina di euro.
“Meglio di niente” pensò Paolino e intascatosi il contante si disfece del portafoglio, buttandolo lungo la strada, al di là di una rete metallica.

Il campo nomadi, sette, otto roulotte e alcune macchine semisfasciate, stava in uno spiazzo, duecento metri più in là.
Ogni mattina Zoran, uno slavo sulla quarantina, accompagnava Dimitri, Katia e Sonia, un maschietto e due ragazzine sui dodici, tredici anni, alla fermata dell’autobus. I tre piccoli gli erano arrivati dall’est dopo un lungo peregrinare, passando di mano in mano. Non era stato un cattivo investimento perché avevano imparato alla svelta, incoraggiati da un sorriso, da qualche consiglio e da opportune cinghiate che servivano, secondo Zoran, a fissare meglio i concetti.
Nel giro di un mese, muniti di cartelli compitati con una grafia incerta e destinati a commuovere i passanti di cuore tenero o quelli che, con un’elemosina giornaliera si conciliavano con la propria coscienza, riuscivano a portare a casa una discreta sommetta. Chi ci prendeva di più era Dimitri, che aveva perso la mano destra su una mina, e aveva due occhini chiari e tristissimi che avrebbero messo in seria difficoltà anche un leghista convinto.
Fu proprio Dimitri, mentre stava varcando il buco della recinzione, a scorgere tra l’erba bagnata il portafoglio. Si guardò indietro. Zoran, attento, seguiva tutti i loro movimenti e Dimitri gli tese timidamente il portafoglio. Zoran lo aprì: niente contanti, ma, in uno scomparto interno, una tessera bancomat scaduta e un paio di schede telefoniche. Qualcosa poteva sempre ricavarne: si intascò i documenti e gettò il portafoglio in un cassonetto dei rifiuti, mentre stava arrivando l’autobus che doveva condurre i tre ragazzi in centro, agli angoli assegnati.

La vecchia Teresa viveva in un garage di un edificio fatiscente che sorgeva poco lontano. Molti appartamenti, dai quali erano stati rubati perfino gli infissi, erano ormai disabitati. Vi resistevano solo alcune famiglie di extra comunitari che, con tutto quello spazio a disposizione, stavano asserragliati nei pochi metri dei locali ancora agibili.
Correva voce che l’edificio avrebbe dovuto essere abbattuto, insieme ad alcuni altri nelle vicinanze, per far posto a un ipermercato con annessa una multisala cinematografica. Tutta la zona, edificata in fretta e furia nei primi anni sessanta, rientrava in una variante del piano regolatore e alcuni occhiuti palazzinari che in Comune avevano sicuramente gli agganci giusti, avevano per tempo messo le mani su gran parte dell’area.
Teresa si accontentava comunque del suo garage: era ormai vicina agli ottanta e non le era mai passato per la testa di sistemarsi in qualche locale dei piani superiori. Un po’ per timidezza, ma soprattutto perché, pur percorrendo ogni giorno qualche chilometro a piedi, trascinandosi dietro il suo trespolo a rotelle, di fare le scale proprio non se la sentiva. Una volta, per semplice curiosità, ci aveva provato, ma dopo una rampa le era sembrato che il cuore perdesse i colpi.
Partiva ogni mattina, a meno che non diluviasse, e si dirigeva verso la città, curando tutti i cassonetti e i cestini dell’immondizia che trovava sulla sua strada. Non era la sola a farlo: vi erano altri disperati come lei, ma per la Teresa tutti provavano rispetto e, tacitamente, era stata effettuata una sorta di ripartizione che le consentiva di condurre le sue ricerche quasi senza concorrenti.
Viveva di ciò che di buono trovava, continuando a meravigliarsi di tutte le cose che ormai la gente buttava. Verso sera, finito il suo giro, passava col suo trabiccolo ricolmo da un paio di robivecchi che la conoscevano da anni e che, senza discutere sul prezzo, prendevano tutto, anche quello che avrebbero a loro volta buttato, dandole di che tirare avanti per un’altra giornata. Quello della vecchia era un lavoro come un altro, lei almeno la pensava così, e nessuno l’aveva mai vista tendere la mano. Per i cestini non c’era alcun problema: poteva frugarci fino in fondo. Altro discorso invece per i cassonetti, dei quali, sollevato a fatica il coperchio, riusciva a esplorare solo ciò che stava in superficie. Più giù non riusciva ad andare.
Il portafoglio era stato buttato da poco e Teresa lo adocchiò subito e se lo mise in una tasca del giaccone a scacchi che indossava estate e inverno. Non che ci sperasse molto: il portafoglio era vecchio e senza alcun valore e dentro, quasi sicuramente, non ci sarebbe stato nulla. Proseguì il suo giro e quando arrivò verso il centro, erano ormai quasi le undici, si sedette sulla solita panchina, in un giardinetto, e prese a masticare a fatica, coi quattro denti che le restavano, il panino imbottito che si era portata dietro. Le tornò in mente il portafoglio e, mentre con un palmo della mano stava ripulendosi la bocca dalle briciole, lo prese di tasca e lo aprì. Come si aspettava era desolatamente vuoto ma, dall’angolo di uno scomparto, spuntava un rettangolino stampato che sfilò delicatamente: erano due francobolli che, per quanto ne sapeva, le sembrarono ancora buoni. Aveva un figlio che anni prima era emigrato per una città lontana. Le aveva fatto una promessa, non ancora mantenuta, ma Teresa non aveva rinunciato alla speranza di ricevere, un giorno o l’altro, una sua lettera con l’indirizzo. I francobolli avrebbero potuto servirle e li infilò nel suo portamonete. Dal portafoglio era quasi certa di non poter ricavare nulla: forse anche il robivecchi non l’avrebbe voluto e tanto valeva disfarsene. Fu allora che le venne un’idea che la riempì d’allegria. Cosa c’era di meglio che lasciarlo sulla strada di fronte, mentre nessuno l’osservava, e poi stare a vedere come si comportava la gente? Attraversò la strada e, datasi un’occhiata in giro, lasciò cadere l’oggetto vicino al gradino del marciapiede, poi tornò soddisfatta alla sua panchina e si preparò ad assistere allo spettacolo.
Dovette attendere parecchi minuti: i passanti erano frettolosi e camminavano per lo più a testa alta, senza mai chinare il capo. Una donna che spingeva una carrozzina addirittura lo calpestò senza accorgersene.
Stava per andarsene quando vide avvicinarsi un uomo che camminava lentamente, assorto nella lettura di un giornale che teneva in mano e che ogni tanto sfogliava, forse alla ricerca di una notizia o di una pagina particolare. Per lo meno, quando girava un foglio, si fermava e i suoi occhi si abbassavano verso il marciapiede. Teresa lo osservò con interesse e le sue aspettative non andarono deluse. Si accorse che l’uomo, già un paio di metri prima, aveva visto il portafoglio e aveva rallentato il passo, mettendosi il giornale sotto il braccio. Si chinò a raccoglierlo e con il portafoglio in mano si guardò in giro per un momento. La prima impressione di Teresa fu che fosse preoccupato di essere osservato, ma poi dovette ricredersi. Teresa era una donna intelligente e dopo un attimo capì che l’uomo stava semplicemente cercando di capire se qualcuno lo avesse perduto in quel momento. La gente però gli scorreva accanto distratta e l’uomo finì col mettersi in tasca il portafoglio e riprese la sua passeggiata. Teresa ridacchiò tra sé pensando all’inevitabile delusione che lo avrebbe preso quando lo avesse aperto.

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Cronaca di un rapimento

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Sentì battere alla porta i due colpi convenuti.
Doveva rimettersi il cappuccio. Lo fece con fatica perché ogni movimento con la mano destra le procurava una fitta di dolore. La manetta collegata con la catena infissa al muro le aveva provocato una profonda escoriazione al polso, che non riusciva a rimarginarsi.
Sentì i passi dell’uomo che entrava e si avvicinava al letto.
Trattenne il respiro e si tranquillizzò solo sentendo i rumori consueti: il vassoio che veniva posato sul tavolo e il secchio vuoto sul pavimento.
L’uomo indugiò un momento e lei trattenne di nuovo il respiro. Poi i passi si allontanarono e sentì lo scatto della serratura.
Erano trascorsi nove giorni dal suo rapimento.

“Ti ho portato il pranzo” disse l’uomo: “devi mangiare”.
Parlava un discreto italiano, con una leggera inflessione dialettale che non riusciva a riconoscere, pur non sembrandole del tutto nuova.
Era la seconda volta che le veniva rivolta la parola.
La sera del rapimento aveva udito più voci, secche, concitate, cattive.
Le davano ordini: “stai giù, non parlare, non muoverti, se gridi ti rompiamo il collo”.
Poi più nulla, se non le istruzioni di infilarsi il cappuccio ogni volta che sentisse battere due colpi alla porta.
Incominciò a tremare e quando si sentì sfiorare il capo da una mano ebbe un sussulto e si rannicchiò contro la parete, le gambe raccolte sotto il mento, gli occhi serrati sotto la stoffa nera che sapeva di rancido e le dava conati di vomito.
L’uomo sbuffò e si udì il rumore della porta che veniva richiusa.
Non l’aveva sentito uscire.

“I tuoi non si decidono a pagare, spero che non facciano i furbi, mi dispiacerebbe per te,” disse l’uomo.
Luciana Lucchi rabbrividì sotto il cappuccio e non rispose.
“Perché non hai mangiato oggi?” chiese ancora l’uomo.
“Non vogliamo trovarci un cadavere tra i piedi, non sappiamo che farcene e poi”, fece una piccola pausa, “ io non voglio farti del male”.
Aveva pronunciato le ultime parole a voce bassa, tanto che lei non era certa di avere capito bene.
“Che tempo c’è fuori?” domandò improvvisamente e mentre lo diceva si rese conto che questo l’uomo non se lo aspettava, ma in quel momento le sembrava che la cosa più importante fosse sapere com’era il tempo fuori.
“Piove”, rispose l’uomo.
La ragazza immaginò la pioggia che cadeva, una pioggia leggera perché non l’aveva sentita. Poi si rese conto che non aveva mai sentito alcun rumore dall’esterno e per la prima volta provò a pensare alla sua prigione, a cosa vi fosse al di là delle pareti della stanza.
Si chiese se si trovava nel sotterraneo di un edificio o in un casolare isolato. Se il casolare si trovasse in pianura o in montagna, o vicino al lago dove si trovava la villa.
Si era quasi dimenticata dell’uomo, che non si era mosso.
“Piove ormai da tre giorni” aggiunse dopo un lungo silenzio. “Ciao”.
Dopo che l’uomo se n’era andato, ripensò alla sua voce: era stato gentile e l’aveva salutata.
Per la prima volta si addormentò tranquillamente.

Per il sequestro di Luciana Lucchi era stato arrestato Mario Bianchini, custode della villa, un ex operaio dell’azienda che in un incidente a una pressa aveva perduto un braccio e si era ritrovato invalido a meno di quarant’anni. Ma Antonio Lucchi, ultimo di una stirpe di industriali, non era uomo da lasciare un suo dipendente in mezzo alla strada.
Assolto per l’infortunio, aveva mandato a chiamare Bianchini e gli aveva offerto la guardiania della sua villa di campagna, una sinecura praticamente, compensata con alloggio e con uno stipendio che sarebbe parso giusto anche per un uomo sano.
Bianchini aveva accettato e si era trasferito con moglie e figli nella casetta del custode, vicino alla casa padronale che si trovava in un’ampia proprietà a una ventina di chilometri, non lontana dal lago. L’impegno che gli veniva richiesto era davvero minimo e si riduceva ai due mesi estivi, quando la villa veniva usata. Per il resto dell’anno badava un po’ al giardino, anche se vi erano un paio d’uomini per i lavori pesanti, e si limitava a tenere gli occhi aperti, perché i furti, nella zona, erano abbastanza frequenti e venivano particolarmente prese di mira le case ricche non abitate.
In tre anni non era però mai successo niente e se non fosse stato per quel braccio, alla cui mancanza non si era ancora abituato, il Bianchini poteva quasi considerarsi un uomo fortunato.
Quello che aveva insospettito era stato il fatto che la giovane Lucchi, che si era recata alla villa con un amico, in stagione morta, aveva preannunciato al custode la sua intenzione qualche giorno prima, telefonandogli e chiedendogli di accendere il riscaldamento, senza dir nulla a suo padre naturalmente.
Il Bianchini aveva dovuto ammetterlo, e non avrebbe potuto negarlo dal momento che per riscaldare completamente la grande casa occorrevano un paio di giornate, così come aveva finito con l’ammettere che anche l’anno prima, più o meno alla stessa epoca, la signorina aveva già fatto un’altra scappatella in villa e lui le aveva tenuto bordone.
Quella sera l’aveva sentita arrivare e aprire il cancello: poi delle grida e il rumore di due macchine che partivano sgommando.
Il ragazzo, uno studente fuori corso di architettura, di un paio d’anni più giovane di lei, non aveva visto invece nulla. Una botta in testa e si era trovato per terra e quando aveva riaperto gli occhi, la moglie del custode, china su di lui, che lo chiamava.
Adesso sembrava più preoccupato delle rimostranze del Lucchi che della sorte della ragazza e, semmai, mortificato per non aver saputo difenderla.
I rapitori comunque dovevano essere perfettamente informati, perché in quella stagione nessuno della famiglia frequentava la villa e la signorina, aveva confermato il Bianchini, era solo la seconda volta che ci veniva. Qualcuno aveva dovuto per forza aver fatto la soffiata e, volendo essere realistici, non poteva trattarsi che dell’amico della ragazza o del custode.
Naturalmente era stato arrestato il custode, ma neppure Petri, rileggendo il rapporto della squadra mobile, si sentiva di condannare la scelta.
Bianchini aveva cocciutamente negato una sua complicità e se non fosse accaduto qualcosa, non si vedeva come la sua incriminazione potesse reggere. Su questo conveniva anche il collega che seguiva l’indagine per la procura e che Petri riteneva, qualche volta, piuttosto disinvolto.
Il fatto nuovo avvenne nel tardo pomeriggio di un mercoledì, quando Petri si recò al carcere per interrogare una seconda volta il custode, quasi un adempimento burocratico gli pareva.
Le indagini della polizia sembravano a un punto morto.
C’era stata una prima richiesta telefonica dei rapitori e poi il silenzio, che ormai durava da quasi due mesi. Non restava che attendere, confidando nelle intercettazioni sui telefoni di casa Lucchi e della ditta, sperando, si diceva Petri, che nel frattempo la ragazza non fosse già stata eliminata.
Chi non poteva più attendere era invece Bianchini, in carcere da oltre quaranta giorni e in una posizione che sostanzialmente, Petri continuava a pensarlo, non si differenziava da quella dell’aspirante architetto.

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Racconti

Prima dei romanzi, una serie di racconti: le prove narrative di Gianni Simoni prendono avvio una decina d’anni fa. Alcuni di questi racconti hanno fornito materiale per i romanzi scritti successivamente, altri – come i quattro che seguono – erano fino a questo momento rimasti inediti.
Carlo Petri, nei primi due, non è ancora in pensione, ma continua a svolgere le sue funzioni di giudice istruttore a Brescia. Il personaggio è già delineato nei suoi tratti essenziali, a partire dalla sua filosofia, tanto più convincente perché non tradotta in interventi espliciti del narratore, ma sempre richiamata nelle parole, nelle azioni, nello stile complessivo dei personaggi principali, e sintetizzabile nella convinzione che esista un gruppo, non numeroso, di persone il cui esser per bene consiste nel rispetto che hanno di sé e del proprio lavoro, e quindi per gli altri. Persone che è facile capire da che parte stanno, ma che vivono questa loro collocazione (ideale, politica): non la dichiarano, non la sostengono, e soprattutto non ne fanno – com’è spesso delle convinzioni politiche – un divisa che esclude quelli che non la pensano come loro. Badano ai fatti, queste persone, e la loro coerenza non è una cosa da dimostrare, ma una cosa che si fa. Ogni giorno. Non è la retorica dell’antieroe. E’ il convincimento che la società vien fatta ogni giorno da tutti, ma se va in una certa direzione – o si spera che vada – questo dipende da una parte dei suoi componenti. Non alfieri dell’altruismo o combattenti dell’emancipazione degli ultimi. Semplicemente convinti che la politica è prima di tutto esercizio quotidiano di attenzione civile. Un’attenzione che si ha – che alcuni hanno – non perché sia un dovere, ma perché non saprebbero fare altrimenti. E’ un costume, uno stile appunto, la scarsa diffusione del quale può spiegare molte cose.
Se dunque il profilo del personaggio è ben definito, si può osservare che il Petri che incontriamo nelle pagine qui proposte non pare ancora esercitare l’indiscusso ascendente su colleghi e collaboratori che i romanzi – ma già il terzo di questi racconti – ci abitueranno a considerare una sua caratteristica di fondo. In Uno sparo al crepuscolo e in Cronaca di un rapimento, invece, pur avendo il ruolo principale, Petri sembra spesso muoversi come un personaggio fra gli altri, indeciso a volte, non estraneo a dubbi e ripensamenti. Già portato comunque a non ridurre sempre i e in ogni caso la figura degli autori di un reato a quella del criminale: senza esplicitare motivi di critica sociale, né tanto meno nutrire velleità di redenzione, si direbbe convinto che i criminali veri siano altri, le cui condizioni non sembrerebbero in alcun modo giustificare scelte moralmente, se non penalmente, illecite. Di qui l’amarezza che a volte, a caso risolto, porta il giudice a dubitare d’aver scelto la professione giusta.
Non opera prima, in certo modo minore, quindi, questi racconti. Anche sotto il profilo della scrittura, nei primi due più incline a soffermarsi nella descrizione d’ambiente che a dispiegarsi nei dialoghi di cui gli altri (Una lettera d’amore e La chiave rubata) fanno largo uso, in ciò – oltre che nel mettere in scena i coprotagonisti, il commissario Miceli e la moglie Anna – anticipando l’andamento che sarà dei romanzi.
(secondorizzonte/c.s.)

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1. Uno sparo al crepuscolo
2. Cronaca di un rapimento
3. Una lettera d’amore
4. La chiave rubata

Uno sparo al crepuscolo

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Il corpo dell’uomo giaceva di traverso sul sentiero, una gamba appena ripiegata e il viso rivolto al cielo.
La fucilata l’aveva colpito alla schiena, aprendogli uno squarcio tondo dal quale il sangue era uscito a fiotti, impregnando la camicia e la giacca, per rapprendersi nella cunetta su cui il corpo si era abbattuto. Gli occhi dell’uomo erano rimasti aperti ed erano umidi di pioggia, come la barba rada che incorniciava il suo volto ossuto di contadino. Era caduto di schianto, prima dell’ultima curva che, girando bruscamente a destra, superava la macchia di ontani e immetteva il sentiero nello spiazzo sterrato davanti alla casa.
La pioggia era diminuita e si era levato un vento leggero che faceva mulinare le foglie secche che gli si posavano per un momento sul viso.

La scrivania era ingombra di carte da inserire nei fascicoli. Le spazzò via con fastidio, poi ci ripensò e ne fece un mucchietto ordinato che raggruppò in un angolo.
Scorse un foglietto piccolo, su cui spiccava la grafia ordinata del segretario.
“Ore 8. 40 ha telefonato la signora Giulia Bayer, chiede di richiamarla”.
Poteva aspettare. Appallottolò il foglietto e lo gettò nel cestino.
Rimase un attimo assorto a guardare nel vuoto, poi si riebbe: sulla scrivania era rimasto il rapporto dei carabinieri di *. Riferivano l’esito delle ultime indagini sull’omicidio di Giuseppe Tintori, un anziano agricoltore che era stato trovato ammazzato da una fucilata vicino alla sua cascina.
Era stato arrestato un vicino di casa, un contadino che viveva da solo, ma Carlo Petri, dopo una breve istruttoria, lo aveva scarcerato.
Ora i carabinieri sospettavano della moglie, una casalinga sessantenne che aveva reso delle dichiarazioni abbastanza contraddittorie.
Spostò il rapporto con un gesto di stizza. Che se ne faceva delle dichiarazioni della vedova Tintori?
Sentirla nuovamente come testimone, torchiarla con garbo, trasmettere gli atti al pubblico ministero?
Telefonò al capitano Gualdi del nucleo investigativo: lo avrebbe atteso nel suo ufficio il mattino del giorno dopo, alle dieci.

Gualdi era un calabrese di una quarantina d’anni. Alto, stempiato, vestiva con una ricercatezza che Petri aveva sempre ritenuto eccessiva.
Sufficientemente colto e smaliziato, metteva nelle sue indagini un puntiglio particolare e, questo Petri era costretto a riconoscerlo, certe sue intuizioni azzardate si erano rivelate esatte, anche se spesso si era chiesto se veramente di intuizioni si trattasse o piuttosto di soffiate della rete di informatori che il capitano gestiva con grande oculatezza.
Era in grande dimestichezza con molti magistrati – ad alcuni dava del tu – e la sua cordialità, il suo ottimismo, la sua vitalità un po’ invadente avevano spesso messo a disagio Petri che, pur cortese di natura, amava tenere le distanze.
Ora Gualdi, dopo avere bussato discretamente alla porta, era entrato in ufficio e Petri aveva indugiato sul fascicolo che teneva aperto sul tavolo, alzando volutamente lo sguardo con un momento di ritardo.
“Si accomodi, capitano, si accomodi”, disse però affabilmente e si sistemò meglio sulla poltrona, accendendo una sigaretta.
Tese il pacchetto a Gualdi, attraverso la scrivania.
“Dimenticavo, già, dimenticavo che lei ha smesso”, disse con un pizzico di malumore.
“La vedova Tintori, la vedova Tintori: il mondo è sempre più pieno di vedove e dove non ci pensa il padreterno, ci pensa una fucilata”.
Petri si rese conto che stava dicendo delle sciocchezze, ma quello delle vedove, del gran numero di vedove, era sempre stato un argomento che lo infastidiva, anche se non perdeva occasione per scherzarci, magari un po’ a denti stretti.
“Ho letto le dichiarazioni della Tintori. Certamente vi è qualcosa che lascia perplessi. Stava in casa e non ha sentito la fucilata, che invece ha sentito benissimo il Corsini che abita a circa duecento metri. Ho anche visto che sembra che il vecchio Tintori avesse un calibro dodici, anche se è sempre il Corsini a dirlo, mentre a casa sua sono stati trovati un fucile calibro venti e un vecchio sedici col percussore difettoso. D’altro canto il Tintori aveva denunziato il possesso solo di questi due fucili, non risulta che ne avesse altri”.
“Poteva tenerlo abusivamente, accade spesso che non tutte le armi vengano denunziate”, osservò Gualdi.
“Lo so, lo so capitano” disse Petri, non riuscendo a reprimere un moto di stizza. ”Lo so benissimo, ma questo che c’entra con la vedova?”.
“Nulla, apparentemente, ma non dimentichiamo il garzone. Dove stava al momento dell’omicidio? La Tintori prima ha parlato della stalla, poi del bosco dietro casa. Dal garzone si è cavato poco o niente. E’ sicuramente un ritardato mentale, e la vedova dà l’impressione di proteggerlo. Quando ci siamo recati alla cascina non lo lasciava un minuto e lui, prima di rispondere, sembrava aspettare l’imbeccata della donna”.
“Cerchiamo di restare ai fatti, capitano, di non lavorare troppo di fantasia” disse Petri con una certa durezza. ”Il garzone è un ragazzotto di trent’anni, anche meno, e la Tintori ne ha più del doppio”.
“Non sarebbe la prima volta”, replicò Gualdi.
“Anche questo lo so, lo so benissimo capitano. E’ un’indagine che deve ripartire dall’inizio e tutte le ipotesi sono buone. Probabilmente anche la sua”.
Petri adesso si sentiva annoiato e desiderava solo che quel colloquio finisse.
Consultò la sua agenda.
“D’accordo, meglio che a questo punto conosca anch’io la vedova Tintori. Mercoledì, mercoledì pomeriggio, alle diciassette . La faccia convocare lei direttamente, ovviamente senza accompagnarla. Le faccia solo recapitare l’invito a presentarsi come testimone”.
Sorrise al suo interlocutore: gli sembrava adesso di doverlo gratificare in qualche modo.
Uscito Gualdi riprese il fascicolo e, diligentemente, incominciò a rileggere gli atti, partendo dalla prima segnalazione.

La perizia necroscopica e la perizia balistica avevano accertato che l’uomo era stato colpito da una fucilata da una distanza compresa tra i cinque e i dieci metri, con traiettoria dal basso verso l’alto. La cartuccia era caricata con pallini del cinque.
Da lepre, pensò Petri.
Il sentiero in quel punto si impennava ed era chiaro che l’omicida si era appostato tra gli alberi e aveva atteso il passaggio di Giuseppe Tintori, sparandogli alle spalle. A quella distanza era impossibile sbagliare e la rosa, ancora compatta, aveva provocato lo sfacelo del polmone raggiungendo l’aorta. La morte era stata pressoché istantanea.
Si trovò a pensare a cosa si potesse provare in quel momento.
Un dolore acutissimo e poi il nulla? Oppure non vi era alcuna sofferenza, neppure istantanea, e il buio piombava all’improvviso, come quando si preme un interruttore?
In gioventù era stato cacciatore e ricordava l’immagine del volo reciso da una fucilata. La preda che si arrestava e crollava verticalmente.
Una linea che si spezza: questa era forse la morte improvvisa.
Ritornò a sfogliare le carte, il primo rapporto del nucleo investigativo che era intervenuto circa un’ora dopo la segnalazione.
Il corpo era stato trovato dalla moglie del vecchio. La donna non si era preoccupata del ritardo, ma, quando si erano fatte le otto, aveva presa una lanterna e aveva imboccato il sentiero. Fatta la curva era quasi inciampata nel corpo del marito ed aveva gridato. Era accorso il garzone che aveva già cenato e si trovava nella cucina. Era rimasto lì, a guardia del morto, e la Tintori era corsa dal vicino, quel Corsini che aveva il telefono e che poi era stato arrestato con l’accusa di omicidio premeditato.
Fra il Corsini e il Tintori vi era una vecchia ruggine, per una questione di confini mai risolta. Anche pochi giorni prima i due avevano alzato la voce, in un’osteria del paese. Erano quasi venuti alle mani e solo l’intervento di alcuni amici aveva evitato il peggio. Corsini aveva accusato l’altro di avere spostato dei cippi e di avergli rubato una striscia di terreno.
Vi erano stati insulti e minacce e Corsini si era alla fine allontanato, borbottando che un giorno o l’altro Tintori avrebbe pagato il conto.
L’avevano sentito tutti, e tutti, in paese, alla notizia della morte di Tintori avevano pensato a quella vecchia questione. Perché Tintori, in sostanza, non aveva altri nemici, anche se certamente era un tipo solitario e scorbutico, che non destava molte simpatie.
Non era però emerso altro. Il possesso di una doppietta calibro dodici non significava molto: da quelle parti era l’arma più comune.
I litigi tra i due poi erano normali, così come le minacce che ormai si scambiavano da vent’anni.
Corsini aveva detto di aver sentito la fucilata. Era nella stalla e aveva pensato a un cacciatore. A quell’ora, se si aveva un po’ di fortuna, ci si poteva ancora imbattere in una beccaccia.
Petri, dopo pochi giorni, lo aveva scarcerato per insufficienza di indizi.

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