Ragioni, temi e percorsi di una mitologia personale
A lungo sono rimasto ad ascoltare i vecchi nella frescura sulla soglia di casa, nelle tiepide cucine invernali o ai margini delle tavolate dei giorni di festa, quando le chiacchiere si erano ormai sfilacciate tra i membri della famiglia riunita. Mi piaceva l’atmosfera del ricordo sommerso, sfaldato, come un frutto la cui decomposizione nutre il piccolo seme del vivere che vi è nascosto. Non è che il ciclo chiaro e ineludibile, privo di senso se non per sé stesso, della rigenerazione e della trasformazione, presidio dell’Unico Ordine Naturale sul quale aggettano in particolare, pescando in antico, le storie popolari di magia e superstizione.
Non sono fatto per le imprese costruttive. Non ho mai edificato una casa né ho scelto un lavoro di fabbricazione. Nel bosco mi piace riportare alla luce il ceppo o la roccia ricoperti dai rovi, loro sì pilastri d’emozionanti luoghi d’incontro.
Quale coscienza del mondo si nasconde nelle leggende, nelle fiabe, negli antichi rituali? Risaliamo il corso delle segregazioni, dei rapimenti, dei viaggi incomprensibili, dei rimedi imprevisti, del divenire del pianeta, della follia, degli amori sorprendenti, delle scoperte terribili e benefiche. Rivoltiamo le tasche del racconto: il bambino abbandonato dal padre non fugge, ma resta a dimorare con la vecchia nella casa del bosco; nella voragine la giovinetta è caduta o non si è piuttosto calata di sua volontà per scrutarne i misteri?
Forze invisibili circondano l’umano e alimentano il mondo. Di esse non abbiamo che frammenti di immagini, da rimontare abbandonando la morale che ha posto la colpa nel cuore del contrasto tra bene e male, tra vita e morte.
L’andare o il tornare, il partire o lo stare, il guardare, il cercare, il donare, l’ordire, sono il punto d’incontro fra testi e immagini. La sospensione dell’ordinario, la ricerca di una umanità feriale, ma anche allegorica e solenne sono la grammatica comune della scrittura di Mauro Abati e della pittura di Marco Manzella.
I testi sono articolati in gruppi di cinque e ciascuno di questi porta a suggello un’opera pittorica: a quella di copertina, Rituale, 2005, seguono Racconto del bosco sacro VII, 2014; Canzone alle nuvole II, 2005; Paesaggio con ragazza che finge di tuffarsi in un fiume XII, 2009.
Uno
Uscì dal paese dalla parte degli orti, i pollai ancora silenziosi, e non sapeva se pure quel giorno sarebbe giunta l’alba, sarebbe sorto il sole, al fiume l’acqua sarebbe scesa ancora per la valle o l’avrebbe invece risalita verso opposti anfratti.
Non sapeva se il padre morto finalmente gli sarebbe venuto incontro, con quei gesti che, ora, in sé ritrovava, inaspettata eredità.
Non sapeva neppure – il protrarsi del buio ad ogni passo gli impediva la vista – se anche quel giorno gli alberi avrebbero lanciato le fronde nel cielo e non invece le tumide radici. Perfino la solita brezza mattutina sembrava risucchiarlo, anziché alitargli sul viso il freddo delle ultime stelle.
Dopo un vago dilucolo fu subito imbrunire, eppure camminò tutto un giorno, e fu allora che ne vide le tracce. Le impronte indicavano chiara la direzione e ciuffi di pelo sparsi qua e là lo convinsero che presto l’avrebbe incontrato. Già si chiedeva cosa avrebbe potuto domandargli, perfino se avrebbe parlato la sua stessa lingua, ma quando giunse alla radura e a un’eco lontana indietro si volse, lo vide, Jobel, uomo selvatico, sull’altro lato ormai della valle, allontanarsi persistendo nell’inganno, di un cammino al contrario.
***
Ad una curva della strada, al bivio, alla bruna fine del giorno, al ritorno, col carro, all’ora più dura, s’imbatté in tre ragazze che salivano al paese. Come divertite da gita fuori programma, le sconosciute lanciavano tra loro spiritose parole, i canestri al braccio, rosse le bocche, le guance fiorite, i capelli in crocchie un poco scomposte, i seni gonfi, a quanto pareva.
Al giungere del carro fecero un segno, le tre, affrettandosi a salire, per gioco reclamando un passaggio, protestando una fretta, un incontro d’amore al cancello di un orto. E il carrettiere, domandando se ce ne fosse anche per lui, un po’, di quella grazia, di quegli entusiasmi, rintuzzato da piacevoli allusioni, avviò un canto seguito dalle giovani voci, intonò versi sul riposo all’ombra dei fiori e dei ricci di donna, ambita pergola degli amanti.
Così si saliva la strada senza ormai più luce e sebbene non servisse, giacché il cavallo conosceva la via, il carrettiere accese la lanterna e tanto bastò, che il canto gaudioso divenne un grugnire ora sordo ora stridulo di troie e maiali, che sbattevano setolosi e impiastrati contro le sponde, finché riuscirono a buttarsi a terra e a correre via, lasciando all’uomo di raccontare solo una volta la sua sventura.
***
Nella sera fresca e serena, perfino profumata, camminava gagliardo, la giacca sulla spalla. Sotto le scarpe scrocchiava la ghiaia, tenue ma sicuro lucore per il suo cammino. Sopra la strada facevano, a tratti, le lunghe fronde di maggio, una galleria.
Alla contentezza d’un affare ben combinato s’aggiunse quella di sentir sopraggiungere un cavallo al passo: avrebbe avuto compagnia nel viaggio. Si voltò ma non c’era nessuno; pensò all’inganno d’una pietra smossa rotolata dal monte. Dopo qualche minuto sentì ripetersi sul selciato il battere di zoccoli, di nuovo si voltò e di nuovo non vide né uomini né cavalli; solo il cupo bosco si chiudeva appena più in là.
Passarono pochi istanti e stavolta fu un chiaro sbuffo a convincere l’uomo d’essere seguito da qualcuno a cavallo, forse morello, così scuro da essere facilmente confuso nel buio. Dunque si voltò per accertarsi ma davvero il viottolo era deserto. Poi fu la volta d’un soffio e d’un altro scalpiccio dell’invisibile animale e dunque fu la volta, per l’uomo, della paura. Allungò il passo nel silenzio rotto dall’andare equino e dal proprio batticuore ma lungo, troppo lungo era ancora il cammino. La paura fu panico e fu terrore finché giunse, l’uomo, alla porta di casa, l’aperse e all’ultimo sguardo alle spalle la voce nel buio disse fortunato sei che c’ero, altrimenti saresti morto.
***
Passata la sera a smorosare in un angolo in penombra della stalla, dopo il solito distratto rosario, intanto che al fioco lume, al morbido tepore delle vacche, all’acre odore di piscia e sterco, le donne filavano e gli uomini riparavano zoccoli e rastrelli. Ogni tanto qualcuno lanciava una frase ridendo, come a dirci che tutti sapevano quale fosse il palpar delle mani e quali i baci oltre il graticcio. Qualche volta anche i bambini della compagnia si gettavano su di noi nel pagliericcio, reclamando con ansimi finti di partecipare al mistero di quel gioco.
I capelli di lei sentivano di focolare. Il mio corpo portava il sudore rappreso nel freddo del bosco d’inverno. Sul principio non era facile, tra gli abiti spessi, nemmeno immaginare di sentir la sua polpa.
Passò la sera e venne l’ora di coricarsi. Per togliermi dall’imbarazzo della foga amorosa, ridendo feci un inchino scherzoso alle dame e i miei rispetti ai messeri. Alla morosa lanciai uno sguardo contento, al quale rispose con la richiesta di un dono. Me ne andai fuori. Era buio. Mi diressi verso casa con la voglia d’una minestra riscaldata sul fuoco. Nel buio inciampai in qualcosa che rotolò via per un tratto risuonando secco sui sassi, che intravidi al tremulo chiaro delle stelle e raccolsi: gelida, mi guardò cieca, piena di fosse e cavità, una muta, insepolta crapa di morto. La gettai con ribrezzo e corsi, ma più volte me la trovai tra i piedi, senza spiegazione, mentre scappavo; finché, come una voce, il vento che ne trapassava i pertugi mi disse dove avrei trovato il dono d’amore.
***
Posò la fiaccola, finalmente a casa, allegra per l’inusuale, inaspettata festa campestre. Aveva ballato tra quei giovani e quelle ragazze, senza pensieri, perfino alleggerita dalla fatica d’una giornata a spigolare, e poi dalla dura salita al paese.
Incontrata la gaia compagnia al bordo del sentiero, si trattenne tra quei festosi, cordiali sconosciuti, che la invitarono lusingandola, al suono di dolci strumenti.
Passò la sera, in quel modo, e solo col buio decise d’abbandonare i nuovi amici, da loro ottenendo esortazioni a tornare, e la fiaccola per risalire l’ultimo tratto di strada.
Al mattino, quando si svegliò, al posto del legno consunto dalla fiamma, trovò il braccio d’un morto. Capì con spavento che la festa era un raduno di trapassati. Invecchiò all’istante ma visse ancora a lungo, passando i suoi giorni chiedendosi come fosse possibile, che i morti vivessero momenti così felici, al contrario di lei, che invece pativa il dono della vita.
Due
Alla radura viveva una donna solitaria. Molti sentieri partivano dal paese, diretti ai campi di grano, agli ovili, alle case d’altura. Sentieri dinoccolati che nei boschi sembravano subire il richiamo di quella lontana chiarita, e quindi, dopo vaghi giri, deviavano, però andando via via a smemorarsi, a confluire l’uno nell’altro, a sfaldarsi fra erbe e piante. I curiosi che riuscirono ad avvicinarsi di più, al ritorno riferirono soltanto che al diradarsi delle fronde, in procinto d’uscire dall’ombrosa boscaglia, la luce del sole li aveva feriti agli occhi e non avevano potuto vedere alcunché.
Alle donne del paese, la donna solitaria aveva insegnato il filare, il tessere e il tingere, e amorevole lasciava in dono qua e là, ai crocicchi, alle fonti, ai cancelli degli orti, bell’e pronti gomitoli d’ogni colore. Le donne ne tessevano tela per abiti per sé, per i loro uomini e per i bambini.
Il prete che in paese edificò la sua chiesa non capiva la dolce amicizia tra le donne e la maestra e convinse gli uomini a dubitare di quella femmina mai posseduta. Corruppe gli abiti, la diffidenza, che si scucirono nel mezzo della messa costringendo la gente a fuggire dal cospetto di Dio, nuda come prima che la solitaria portasse la sapienza in paese.
Malamente fu cacciata la donna e dietro il suo cammino sorsero pietre che lo chiusero al mondo. Poi domarono i sentieri: con durezza li costrinsero a mete certe, a fissi itinerari, lontani, lontani dalla radura del mistero.
***
Con le sorelle si offrì alla solitudine delle vette. Erano tutte molto belle. A ognuna una vetta nell’intorno del lago. Edificarono ognuna una casupola. Le casupole avevano caldi focolari. I focolari ospitavano vivide fiamme. Le fiamme accoglievano visioni. Ammaliati da quelle presenze, i rami degli alberi e i sentieri piegarono verso le loro dimore. Un giorno ogni anno accendevano falò in saluto alle compagne.
Non mangiavano che poche erbe; bevevano pioggia dalle foglie accartocciate. Guardavano le stelle. S’ingravidavano e partorivano col girare della luna. Nascevano sogni, preghiere esaudite. Facevano sorgere pietre e su di esse imprimevano l’impronta del piede. Palpitavano i meridiani del pianeta.
Stavano sulle cime più vicine alle stelle. Sulle alture dagli ozi più ampi, guardando il lago. Stavano. Cantavano. Cullavano le valli. Passando dal sole all’ombra si assopivano, dall’ombra al sole vegliavano. Nell’ora più accesa combattevano gli spiriti della rarefazione; nelle notti più cupe gli enti appiccicosi del ventre terrestre. Stendevano una mano, poi l’altra. Studiavano la fisica delle cose. Cercavano la loro contiguità.
***
Tre donne al tempio, guardano gli uomini passare; una fila, una cuce, una taglia il filo e spenge la luce. Passa un uomo ne passa un altro, passa un uomo ne passan cento, passano via come il vento. Ci son tre donne al tempio, con rocca e fuso, ago e ditale, forbici e coltello. Si prendono per mano, si specchiano una nell’altra. Ci son tre donne, ce n’è una, dal monte domina fino all’orizzonte.
C’è una donna che fila cuce e taglia. Gli uomini s’affannano a salire per averla, ma greve ognuno al proprio filo s’ingarbuglia. Chi arriva in vetta lei colpisce con fendenti e il terreno è sparso di corpi macellati.
Din don campana d’aria, chiamata irreversibile, vibrazione al mondo, vibrazione ai cieli. Un uomo s’arrampica mani e piedi su quelle risonanze, raggomitolando mano a mano il filo della vita, giovane tornando da vecchio che già era. Leggero sale scale armoniche, sobbalzando al giusto ritmo, fino alla donna che lo guarda affascinata, che lo attende a braccia tese, che lo abbraccia finalmente. E lo ama infine, nel letto fetido della morte.
***
Prisdomina corre i monti a braccare cervi e caprioli; s’apposta agli incroci delle piste e li stringe nel turbine di cani. Ama gli agguati, i corpo a corpo, con gli animali e con gl’intrichi del bosco. Balza da un lato all’altro dei canaloni o da un albero a un altro nel fragore dei rami, torna alla tana stremata, rigenerata. Abbandonati i pascoli d’alta quota all’autunno, al sole che secca le ultime foglie ai faggi, ai cespi di cardi e ai rododendri, urlante la senti di vittorie dai dossi e dalle rupi.
Quest’anno i giorni dei morti cadono in un autunno radioso e un uomo avido di nuove prede sale a caccia nel monte trascurando d’onorare gli antenati in paese. Dopo la battuta si rifugia alla capanna e prepara fuoco e cibo quando verso il tramonto sente un latrare di cani e un chiamare rivolto alla parca dimora. S’affaccia e vede una donna e la invita al riparo a scaldarsi, ma dalla veste trapelano gambe coperte di pelo e duri zoccoli d’animale.
Al terrore dell’uomo risponde sonora la voce: “Sono io Prisdomina, prima signora delle vette ancor prima delle greggi e dei cacciatori, ancor prima che i ghiacci millenari lasciassero del tutto il proprio letto alla tundra, dove ora invece fioriscono bosco e prateria. Sono io l’animale braccato e lo spirito della caccia che animò già i tuoi avi e che a te conduce selvaggina per loro intercessione. Onora i morti che tornano in veste d’animale per guidare a te le prede!”
Fugge l’uomo ma, lungo il sentiero, un altro cacciatore fino al crepuscolo appostato, eccitato dalla corsa di ciò che crede una fiera, con un sol colpo l’uccide. E a questi il cuore si spacca, nel vedere morto a terra l’amico per la fretta della propria mano.
***
La giovane si era allontanata per cogliere fiori nel prato. Era il mezzo del giorno ed era caldo. Tutto minutamente sfavillava e anche le cose distanti parevano vicine, però sgranate come in una miriade di roventi cristalli cangianti. Sotto l’albero l’ombra vibrava tenue e perfetta e dormiva un uomo con incastonato un brillante in fronte. La ragazza avanzò di qualche passo e stette a rimirarlo, ad ascoltare il suo profondo respiro, a sentirne l’odore. Non si chiese nemmeno chi fosse, ma si distese a riposargli accanto.
Erano le ore dell’ozio, quando il caldo scioglie le vesti e ancor di più ogni ritegno; accanto al dormiente, il fresco dell’ombra pareva delimitare un’alcova. Languida, la ragazza tese la mano a sfiorargli la fronte, ammaliata dalla gemma. Accarezzò le guance. Lui non si svegliò, ma la gemma s’accese di più. Gli spostò la camicia dal petto e il brillante mutò colore. Intrigata, la giovane ne carezzò il torso e la gemma distillò nuova luce. Scese ad aprire la cinta e a cercargli il sesso, lo trovò turgido e desiderabile. Levata la veste gli si accucciò sopra a covare quella serpe fino al proprio godimento. Durante il ritorno sentì stupita tra le gambe un gocciolare di seme.
Il giorno dopo, nell’ora meridiana della calura, in quella sospensione del tempo, la giovane sentì cantare il gallo e le parve un richiamo. Andò all’albero e vide l’uomo dormire. Come giunse, i guizzi di luce del brillante la smarrirono. Si spogliò, aprì i calzoni al dormiente e si mise sopra. Anche stavolta il suo pensiero si perse fino al piacere.
Il giorno successivo, al canto del gallo, alla solita ora, la ragazza tornò all’albero e ritrovò lo sconosciuto; ne sentì il respiro nel sonno. Lieta cominciò ad armeggiare gustando negli occhi le iridescenze della gemma e nel corpo il proprio diletto.
L’indomani, al solito segnale, nell’ora rarefatta del mezzogiorno, la ragazza tornò all’uomo, che come al solito dormiva. Stavolta lo preparò con la bocca, poi si mise cavalcioni, s’infilò l’asta e sfregò fino alla fine.
Il giorno seguente fu lo stesso e per molti giorni ancora.
Col tempo gli incontri vennero risaputi. La donna indusse anche altre a provare. Attorno all’albero fu costruito un giardino e fra le praticanti si costituì una piccola casta, che rinnovava ogni giorno la salita del sole allo zenit.
Tre
Chissà quando, ma quando e quale acqua scavò la gola di roccia dove ora solo un’aria umida fluisce, nel contorno librarsi di piante lunghissime, mucose vegetali, corde d’edera lanciate nella voce pulviscolare dell’ultimo sole.
Nella bocca sto, segnando il fango di tracce, il fango molle, la tumida penombra, solcando d’un tratto la saliva d’un rivolo, la svolta del sentiero, il refolo del puro respiro.
Appena sotto ecco il balzo, il vuoto degli alveoli e gli scambi cupi del sangue, l’espandersi di tellurici diaframmi. Stridono negli attriti i tronchi flessi al dilatarsi o comprimersi, senza riposo, del bosco.
Passavo in Valvecchia di ritorno dal mercato, dove scambiai scope di betulla con grano di pianura. Temevo Valvecchia e l’anguana che l’abita, temevo le sue profferte, il suo battere di panni lavati all’asciutto torrente, gli assenti riflessi nel vano specchio, le umili richieste d’aiuto nelle eterne banali incombenze della sua verde dimora. Temevo, ma la strada era quella, la più lunga e insieme la più breve.
All’orrido di Valvecchia si sentì bussare tre volte nel vento. Fremettero, pure immoti, gli strati di pietra.
***
Oltre la siepe sul ciglio della strada, un’ampia buca e fonda si apriva, una cavità di cui non si vedeva la fine. Sprofondata la terra, dilavata dalla pioggia di secoli e rimasti qua e là spuntoni di roccia – la roccia madre che presso i paesi sostiene giardini e case, orti e broli… – in quella voragine si erano annidati i sogni più cupi della gente del villaggio, i dubbi, le inquietudini, le paure, e tutto brulicava, ribolliva, fermentava, nutrendo un’acqua ctonia in corsa verso un lago lontano. Nell’approssimarsi, i viandanti allungavano il passo per non attardarsi a quel vuoto ricolmo, a quel muto frastuono.
Una volta, nella fossa cadde, o si gettò, una figliola e furono vane le sue ricerche: nessuno pensava che a quell’incubo si fosse avvicinata. Un giorno, alla mamma della ragazza mancò un pane sul tavolo; l’indomani ne mancò un altro e così il giorno seguente. Voglio proprio vedere chi entra in casa mia, pensò la donna.
All’improvviso sopraggiunse una colomba, prese un pane nel becco e volò via. La gente del villaggio seguì l’uccello e giunse al pozzo; la colomba vi scese a portare il pane alla giovane. Così la trovarono su una roccia in basso, intenta a scrutare nel buio del buco il proprio sangue mestruale unirsi alla fonda corrente.
La chiamarono, calarono delle corde e la portarono in salvo. Per quanto visse, la salvata non fece che guardare, traendo premonizioni, nell’occhio della fossa impresso dentro di sé.
***
Mi allontanai da casa con un arco rudimentale e alcune frecce sghembe che mi divertivo a lanciare in aria senza scopo, se non quello di vederle trafiggere i raggi di sole tra il fogliame. Non avevo alcuna intenzione con quel gioco, ma quella minima escursione mi portò ad incontrare un canto di donna poco distante, fresco e morbido, fatto di lunghe vocali, senza parole precise; e mi prese la voglia di raggiungerlo, mi prese un entusiasmo, come fosse un preciso richiamo per la mia adolescenza.
Quando raggiunsi la casa, il vecchio stava seduto su una panca fuori dall’uscio e nel vedermi sorrise, come sapesse ciò che m’aveva intrigato, mentre dall’ingresso si affacciava una giovane, forse quella che prima cantava e che ora rideva e forse rideva proprio di me, dell’ingenuità con la quale caddi nella sua trappola. Parlai un po’ col vecchio, ma la ragazza non uscì più da quella casa nel sole, da quelle stanze di pietra, piene di tenera ombra.
Dall’interno ne sentivo la voce mentre parlava con una donna più anziana. Non capivo cosa dicessero, ma certo si trattava delle piccole cure, o grandi, della preparazione del cibo e delle bevande, dei cicli mestruali delle femmine degli animali selvatici, degli usi delle corna dei cervi, dei poteri delle erbe medicinali, e certo dei molti incantamenti che la donna esercita sull’uomo, delle trame che l’uomo ordisce contro il compagno; insomma, degli ambigui misteri dei giorni del mondo.
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Enorme, tutta nel cielo, sciolta chioma d’una berenice. Isole gemme. Ondine. Alberi protesi. Barche sull’azzurro. Da quell’alto, lassù, molto in alto, il lago è una svirgola che incanta. Anche l’aquila che lo sorvola con penne frementi, s’estasia nella pace. Qua riflessi d’argento, là verdi algosi in prossimità di valli subacquee. Enorme, tutta nel cielo, la chioma fluente di venti sottili. Capelli ariosi come serica veste, lievemente cangianti nelle ore del giorno, morbidamente roventi dalla parte del sole morente, siderale clavicembalo nell’indaco prelucano.
Enorme. Da tutto quel cielo il sussulto sommuove prima l’ossea struttura della terra e poi le pietre ancillari, coi loro interstizi d’argilla e conchiglie. Dal settimo cielo s’irradia a cascata il buio improvviso, quando la madre possente si china a bagnare la chioma nel lago, vantando il proprio primato. E s’immergono i venti, squassando le abituali correnti e la frega dei pesci, i depositi sabbiosi e le viscide alghe. È il giorno dell’anno che la madre grande si lava i capelli e s’inabissa quella testa fragorosa sollevando le acque, gettandole sulle rive sconvolte, dove i piccoli esseri uomini e donne, coi loro cani e gatti e le vacche e le pecore si rintanano muti nelle fragili case. È il giorno in cui paga pegno, il villaggio, con case scoperchiate ed esseri risucchiati dai flutti, a un patto di concordia siglato in antico.
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Era bello prendere tempo sulla barca al centro del lago coi giovani compagni e le amiche, vagare tra gli isolotti in larghi peripli, scendere in acqua empiendo il petto nel respiro esultante, in riverberi di luce che univano aria e acqua in una sola atmosfera.
Dalle chiatte giungeva il canto dei marinai, dai golfi i comandi dei pescatori al ritiro delle reti, alle rupi sentivi il vociare dei tuffatori che lasciavano la terra. Guizzavano i pesci nell’ombra cristallina dei fiordi, alle calme foci dei torrenti regnavano gli aironi, alle rive si abbeveravano le cerve coi piccoli. E tutto ciò rimirando salutavamo le altre barche intente alla stessa pace.
Accostando le rive soleggiate attingevamo frutti dai boschetti di rovi; assicurata la barca agli anelli incastonati nelle rocce, si andava a terra a risalire le cuspidi isolane. Dalla vetta, la loro sequenza pareva la serie di rimbalzi d’una pietruzza lanciata sul pelo dell’acqua, moltiplicata e resa eterna dalla quintessenza del lago.
Eravamo in barca anche quel giorno, distesi a farci cullare. All’improvviso le isole e le terre presero a sollevarsi, l’acqua ad abbandonare con fragore le pendici trascinando fango e pietre, mettendo a nudo la roccia pura del pianeta. Ma no, non erano le montagne ad alzarsi, ma il lago a sprofondare, come digerito in non si sa quale viscere. La contorta orografia subacquea causò durante il deflusso furiose correnti, gorghi, ondate che sbattevano le scialuppe come in una tempesta sulla quale, però, regnava imperturbabile il cielo sereno. Le barche si sfracellavano sui costoni o penzolavano in secca attraccate ad anelli assurdamente infissi sull’alto delle nuove montagne. I battelli che si arenavano in alto finivano per inclinarsi via via fino a rotolare in basso col carico di uomini, pesci, argenti e ori. Lo svuotarsi dell’acqua scavò ancor di più la valle che veniva a formarsi, taglio di bisturi nella nera terra. Chi sopravvisse vi dimorò trascinandosi nel fango come verme inumano. Fra gli stretti versanti urtavano con dolore gli sguardi, l’udito si perturbò d’echi, la pelle non godette più del sole, calando dalle cime il vento trascinava lontano gli aromi, la bocca masticava la terra.
Non parlarono più d’amore per lungo tempo. Muti divennero gli abbracci nel letto stanco. Lontane si guardavano le bocche rade peonie conversando al lungo divano. Ancora a lungo con imbarazzo s’aprivano a tavola le labbra impudico era il gesto del prendere cibo e si masticava piano. Nessuno chiedeva più che gli si passasse il vino. Le mani erano ritratte. Si guardò con sospetto il pane. Ancora a lungo si temette il pensiero d’amore.
L’altopiano roccioso del mio terrazzino, gettato nel sole di maggio, volenteroso, di forti avventure, vi garantisco. Stavo. Non ho fiato per cantare mentre cammino. Escursioni di molto tempo fa. Quindi sto in silenzio. Tornano pagine di diario che non aprivo da molto, che apro spesso o quando voglio. Rivendico: non ho bisogno di un’epidemia per buttare via il tempo. Sto. Certo che sto. Terra solo mia. Mia sola patria, solo mia. Cammino. Certo che cammino. Mi sento cantare. Nel sonno. Posso correre. Ma fino a un certo punto.
Era ferito, gettato nella neve; un fuciliere nascosto dietro le rupi colpì la sua discesa. La bianca uniforme degli alpini sciatori, sporca del sangue, puzzava di sudore e di febbre. Riverso e privo di sensi, col tempo l’alito bollente e l’ipertermia avevano scavato la buca nella neve fresca, sciogliendo l’arrossato candore, e pian piano il corpo vi s’era infilato per semplice gravità; alla fine sporgevano solo le gambe, come due monconi sui quali sferzava il vento.
Dopo la battaglia, in ricognizione per ritirare i cadaveri, la pattuglia sulle prime lo diede per morto. Ma risvegliato dal vociare e dal trafficare dei barellieri, sentendoli dire (non senza l’ironia dei sopravvissuti) “Guarda questo come s’è messo”, in qualche modo riuscì a lanciare segnali, un urlo, un rantolo, muovendosi un poco nel gran dolore, e finalmente lo conobbero per vivo, quel giovane alpino dell’Adamello infossato nella neve. Era il 1917. Il soldato riuscì a guarire e ad aver figli e nipoti. Io sono uno di questi ed il fatto me lo raccontò lui stesso, ormai vecchio e incavalierato dell’ordine di Vittorio Veneto.
Era dunque il 1917 e nella Russia preda della crisi economica e dell’avanzata del nemico (lo stesso nemico degli alpini dell’Adamello) avevano già sloggiato lo zar e si rincorreva una rivolta dietro l’altra; mio nonno aveva 22 anni. Dopo il ferimento fu congedato. A guerra finita, non avendo lavoro, emigrò in Svizzera e lì lavorò sotto un mezzo parente; presto, però, ebbe da ridire per via che quello, che, dopo un matrimonio con una facoltosa del posto, aveva messo in piedi una fabbrica, obbligava i dipendenti a rifornirsi di cibo nello spaccio da lui stesso condotto e a vivere in alloggi di sua proprietà, detraendone i non modici costi dalla paga mensile. Così mio nonno non stette molto in quelle contrade; si trasferì in Francia ma poi tornò in valle a lavorare da capomastro nei cantieri.
Da qualche anno qui tirava aria di socialismo e anche il sindaco di Gardone era stato ridotto al confino essendosi opposto, nel ’15, all’entrata in guerra. “Imola lombarda” era chiamato Gardone sui giornali del tempo, in riferimento alla cittadina emiliana, patria di un forte movimento socialista e pure del primo eletto di quel partito nel Parlamento del Regno, Andrea Costa, per un po’ d’anni compagno di Anna Kuliscioff.
Insomma, mio nonno, dopo i patimenti di una guerra combattuta a tremila metri di quota, in grotte di ghiaccio e con la minaccia della fucilazione per i disertori, s’avvicinò al socialismo e si prese la tessera del partito. D’indole insofferente e schiettamente anticlericale, nel ‘19 si schierò con i massimalisti contro i riformisti di Filippo Turati (l’altro uomo della Kuliscioff). Insieme ad altri costituì una cellula rivoluzionaria a Bovegno (un paese di duemila abitanti, la metà minatori), cellula che aderì alla mozione comunista già dal congresso di Livorno del ’21. Fausto, mio nonno, e i suoi tre fratelli erano una buona parte del piccolo gruppo sovversivo, in tutto undici uomini e una certa frangia giovanile di nuova leva. Dopo il biennio rosso, gli scioperi agrari e l’occupazione delle fabbriche tra ‘19 e ‘20 all’insegna del “Faremo come in Russia”, però, facendo sponda sulla crisi economica, la reazione capitalista ormai riconquistava terreno. Le elezioni di quell’anno diedero un brutto colpo agli inconcludenti socialisti. Per parte loro, i comunisti di Bovegno dovettero decidere quale posizione sostenere: la linea gramsciana del centralismo democratico, che voleva la partecipazione alle elezioni, o la linea bordighiana del centralismo organicista, invocante invece l’astensione rivoluzionaria, ma che si era meritata un’invettiva direttamente da Lenin col pamphlet “L’estremismo malattia infantile del comunismo”? La questione era se in Italia esistesse o meno, nei fatti, un terreno pronto alla rivoluzione proletaria. A Bovegno i comunisti scelsero Gramsci, parteciparono alle elezioni e presero 52 voti sui 100 di tutta la valle: nel loro piccolo si difesero bene, ma nell’insieme furono uno sputo nel Mella.
Quando il fascismo s’impose, i quattro fratelli non mancarono d’essere al centro d’una certa persecuzione a base di botte, perquisizioni domiciliari, olio di ricino e qualche giorno di galera qua e là, tanto che Giovanni decise di andarsene a Marsiglia e di lui non si seppe più niente per molti anni; poi giunsero notizie d’un suo matrimonio con una ballerina spagnola, ma infine la sua vicenda si perse nell’abisso.
Maffeo, durante la prima guerra era stato fatto prigioniero dagli austriaci e quando tornò era malato e ostile verso un po’ tutto, ancora più schivo e riottoso di quanto non lo fosse di carattere. Restò celibe e non ne so niente di più.
Natale, a lungo ricordato anche nei paesi vicini come gran bevitore e amante di baldorie, era il più giovane di tutti e il più assiduo nella militanza. Durante la Resistenza fu parte del Cln della valle, poi trascurò la politica attiva e si trasferì al Carmine di Brescia con tutta la famiglia. Mio padre mantenne a lungo contatti con loro e io stesso ricordo l’affollata, vociante e fumosa osteria in via Capriolo gestita da un cugino.
Il 25 aprile del ’45, Fausto, mio nonno, uscito a vedere come si mettevano le cose tornò a casa con un moschetto recuperato chissà dove, come fosse stato un partigiano della prima ora. In realtà non sembra avesse rivestito un ruolo particolare nella Resistenza e giudicherei ammissibile solo qualche coinvolgimento nella propaganda clandestina, probabilmente nel retrobottega di qualche osteria. Passò qualche anno prima che venisse rinvenuta una pistola nel cassetto del tavolino che oggi io uso come scrivania e può darsi che quell’arma costituisse il suo modesto contributo ai preparativi rivoluzionari conseguenti all’attentato a Togliatti.
Di fisico gagliardo, come certo si è già intuito, anche lui non disdegnava le bettole e quand’esse chiudevano, non di rado la sua compagnia si spostava a casa obbligando mia nonna a lasciare il letto e servire da mangiare a tutti, sobri o ubriachi.
La pistola fu perduta o gettata, il cappello d’alpino collocato in una vetrinetta del gruppo sezionale dell’Ana. Il ritratto del nonno, compiuto secondo uno stile vagamente concettuale anni Settanta, con l’immancabile pipa e la nuvola di fumo, opera giovanile di un mio cugino acclamato pittore, riposa in qualche angolo di chissà quale cantina.
Io lo ricordo passeggiare in paese o nella camera d’ospizio salutarmi con enfasi come stesse iniziando un discorso pubblico, orgoglioso che, nella mia piena adolescenza, mi lanciassi in qualche tentativo poetico, degno nipote d’un uomo che si vantava dell’eleganza della propria calligrafia.
Lui stesso aveva in ammirazione i poeti, in particolare lo scapigliato Lorenzo Stecchetti, nei componimenti del quale rinveniva una sorta d’imprimatur alla propria verve anticlericale. A quel tempo l’ospizio era ancora condotto da suore e lui non si esimeva dal declamare i testi più pungenti alla madre superiora, accompagnandosi con i tozzi gesti di un braccio semi anchilosato in seguito ad una caduta sulle scale in stato di ebrezza.
In particolare ricordo lo stile laconico, ma in fondo autoreferenziale, con cui recitava a memoria alla suora “Il castello di polenta”, ombrosa gouache nella quale si compara il feudatario che sfrutta la plebe e il prete che s’approfitta delle contadine.
Mio nonno era mio nonno, ma negli anni più recenti ho visto mio padre assomigliargli sempre più man mano invecchiava: gli zigomi e la fronte tondeggianti, il mento piccolo, gli occhi ormai acquosi ma chissà come attenti, piccoli nel cranio sempre più simile a un teschio. Ma ormai mio padre ha già superato di qualche anno la già rispettabile età alla quale il nonno morì.
A parte l’episodio del ferimento al tempo della guerra, con me Fausto si astenne dal raccontare delle sue vicende giovanili, delle rincorse rivoluzionarie in un men che periferico tassello della grande geografia del mondo, delle polemiche, dei rimedi per campare un po’ meglio, delle miserie ordinarie, dei giochi di specchi e degli specchi per le allodole, e d’altra parte ero forse troppo giovane per capirle o per ricordarle. Le notizie le ho raccolte invece da mio padre e da qualche libro di storia locale, nel quale i nomi dei parenti punteggiano qua e là una schiuma umana che sa di terra e fogliame in decomposizione.
La raccolta “Postuma” di Stecchetti, significativamente sottotitolata “Il canto dell’odio e altri versi proibiti” mi capitò tra le mani ad una bancarella di libri usati; la comprai e così potetti meglio conoscere, a distanza di anni, ciò che mio nonno leggeva. Forse lui non venne mai a sapere che anche dietro il nome di quel poeta tanto amato si nascondeva un altro gioco di specchi, giacché Stecchetti non era che uno dei tanti personaggi di fantasia di cui si nutriva l’opera bizzarra di Olindo Guerrini, il quale invece passava per solo curatore del florilegio. È invece molto probabile che il gancio, se così si può dire, che decisamente lo prese al cuore, fosse stato l’ultimo capoverso, di sapore socialisteggiante, del “Saluto” dal Guerrini aggiunto all’edizione del libello del 1903: “Giovani, a voi! Non sdegnate di raccogliere questa bandiera ch’io credetti di verità nello scrivere, di libertà e di giustizia nel vivere. Raccoglietela da queste povere mani, stanche ma fedeli, deboli ma non vili, e portatela voi, migliore e più bella, in alto in alto, nella radiosa gloria dell’avvenire! Addio!”
Ironia degli addii, il funerale di mio nonno non fu celebrato con rito civile, come lui avrebbe voluto, per via di un’intesa, più di sguardi che di parole, tra la suora dell’ospizio e due mie zie, sue figlie, sfacciatamente perbeniste.
giro un poco per casa
l’albero della notte è in fiore
tra salite di calce
piazze di silenzio le stanze
e vado a letto
senza svestirmi
sa il cervo che nessuno
uscirà nella notte
di noi che da poco
abbiamo finito la cena
nella notte libero
il cervo fuori casa
*
tre lune
ben tre lune
con sonagli e corde
di foglie e brezza
piccolissime luci nel bosco
lente radici
minuti movimenti
occhi come punte d’ago
frulli nervosi
d’ali insospettite
e poi l’unghia del cervo
odora al silenzio
del muschio il cammino
i cuori sui rami
e lente radici
*
lentamente si mosse
rupe tra le foglie
al bianco dei fari
gettati un istante
dalla curva nel folto
non lo riconoscesti
a prima vista il cervo
in cima alla salita
per quelle poche case
ma solo dal balzo
dal frastuono delle corna
tra i rami gemmati
*
mia la lepre
che le strade traversa la notte
tuo il cervo
alla radura frusciante
sento maturare alla gola
il sangue che pulsa
mio il teso
volo d’uccello
tuo il cervo
dal fiato lucente
sento maturare nel ventre
la linfa del ramo
*
lentamente si mosse
schiva rupe
solidi fianchi
sciogliendo i glutei
oleosi
non lo riconoscesti
a prima vista il cervo
in fiamme e vento
il proprio cuore appiccando
all’intero bosco
*
gocciola nel secchio
che qualcuno ha lasciato in cortile
la vena d’acqua dal ramo fiorito
se tu guardi, ecco
la trasperenza di magica sfera
in attesa di porgere
le proprie visioni
e così se ti sporgi
pure vedrai
guardarti
da quell’oblò un te stesso
a tratti frantumato
dall’urto dell’acqua
(rimescolano le mani le carte
e poi rapide al solitario
rifanno il disegno)
nell’ultimo passaggio
del cervo nell’alba
si fermò non visto
a guardar nella pozza
e non si riconobbe
nello scherzo di rami
e di corna
poi riprese
la trama di pioggia
*
inaspettatamente cadde
dal ramo quel piccolo cuore di rupe
cervo
con le belle corna nella terra
*
con latrati l’aurora diffonde
un fuori che svapora
cupo ancora l’albero
della notte ha radici più fonde
nell’alveare di vie
non ovunque attacca l’alba
il lattice vischioso
*
guardo l’albero nel sole
luce ed ombra sono spuma
onda, un vago bene
filtra un respiro tra i rami
corna dagli ampi palchi
cervo, tale fu
la mia passione al tuo racconto
d’intravista presenza
e ci disse l’amica correte
verso il sole altre mani
vi spuntan dalle dita
Stanotte che abbiamo raggiunto il pascolo tardi, una e piena la Luna, nel suo assoluto, nel suo silenzio e nella pace, è paradigma di ciò ch’è compiuto.
Approdo ideale in quel cielo, dà misura e mistero alla nostra distanza. Perfetta voragine, da lì si riversa la luce d’un sole notturno, oltre nascosto.
Cespi qua e là, gli ultimi prima del pascolo aperto, s’allungano e stortano calando il pendio. Lo zaino pesa oramai.
L’aria olivastra, l’aria fresca, l’aria odorosa. La sagoma del monte. Nelle foglie chissà quali maree muove la Luna, nelle fonti, nelle pozze alle malghe, negli abbeveratoi.
Passo passo si sale di quota e lenta diventa la notte, perde gravità e dondolante s’appoggia nelle impronte che lascio per terra, dove si rompono un momento la luce e l’affanno.
L’affanno… E superato un nuovo salto del monte la piana fa giungere il suono d’uno scorrere d’acqua. Il passo è più dondolante e sul bordo d’antica torbiera si para d’innanzi, gettata in controluce, la nera architettura del portico per gli animali.
Lunghe e dense le ombre, come in un quadro di De Chirico dalle sghembe prospettive; tempio profano il colonnato e nel tutto è cangiante la luce se nel riquadro del portico vedo lontana e azzurra la Terra.
Si percepisce ormai chiara la diversa gravità e i gesti sono larghi sebbene non si proceda proprio a balzi. Tutto è nuovo, nell’essere il primo uomo deposto in questo paesaggio, ma ciò che colpisce è l’assenza di brezza, l’immobilità delle poche cose, l’orizzonte di cui non si sa dire la distanza, la secchezza, la solitudine di un luogo dal quale nessuno, ancora, è mai partito, che stranamente non ha conosciuto transumanze.
Gli avvallamenti qui non sono dovuti all’erosione, ma solo a muti urti di meteore ora in frantumi, massi divenuti monte dove mai ciondoleranno armenti. E senza erosione non c’è tempo, è chiaro, non c’è confronto né memoria. Perfino la fonte che vedo ma non sento, goffo ribollire d’acqua nell’acqua sembra ora polvere ora fango senza un divenire, ma solo nell’essere semplicemente stato diverso.
Da una cavità escono bolle che sorprende trovare così nel profondo e dato che nella stanchezza oramai, bastano poche scomposte bracciate per non aver cognizione dell’alto e del basso, e ciò che prima era suolo ora è soffitto d’una grotta, quelle vacue tracce, vuote di materia, è opportuno seguire per la risalita.
Filtra la luce in fasci e più non si sa se il giorno o la notte avvolga il pianeta, se ancora sia l’alba dei primi animali in uscita dall’amnio, o se già la guerra sia la più precisa invenzione.
Trovato dove risalire lasciamo la fossa più fonda e troviamo la cima, il pelo dell’acqua a portata di mano, gli ultimi passi. Volgendomi ammiro, in basso, nostro sogno usuale, la valle quieta nel sonno.
I Corni rossi stanno sullo sfondo del paese. Ci sali per una fila di posti di caccia sopra S. Bartolomeo: radure dove ho fatto l’amore, una volta, con Marisa, nascosti dai cespugli. Un cane in cerca, ce n’eravamo andati da poco, muti lo guardammo impazzire ai nostri odori, dove ci eravamo abbracciati nell’erba.
Sopra i Corni rossi c’è la conca di Lividino con la malga. Sotto, le rocce a strapiombo dei Corni e, sopra, quel pascolo verde celato alla valle. A Lividino ci sali da Caregno per una strada ghiaiosa e ripida che quasi metti le ginocchia in bocca. La dolomia si sfalda in pietre bianche e asciutte, perfino polverose, e in settembre ci brillano le bacche del sorbo e l’argento di foglie accartocciate. Il sorbo di monte qui prende un portamento da principe, con piume di sangue e metallo.
Salendo non fai che guardare il sentiero a una spanna dal naso, però quando al passo si arriva si apre, di là ci sorprende il più lieve declivio, e senti quasi il desiderio di qualche bracciata, come in un lago di aria distesa. Allora, ti dico, guarda a sud il crinale nel sole e dimmi se non pare un’immobile onda sospesa quella cresta oltre la quale percepisci il dirupo. Puoi sentire la forza che spinse in alto quel lungo spruzzo di pietra?
Se vuoi salire in vetta al Guglielmo da qui vedi bene il percorso che resta, ma non sai dire se sia vicina, la meta, o lontana.
Da questo cielo di Lividino scendevano in picchiata gli aerei durante l’ultima guerra, per bombardare il paese. Le prime volte risalivano la valle da sud, ma la vicina parete dei Corni rossi li costringeva a mantenersi in quota. Quella volta che non volli andare a scuola e salii di nascosto a S. Bartolomeo, invece, mentre guardavo sul fondovalle il paese me li trovai alle spalle che scendevano bassi sopra di me. Dal Lividino scendevano rasenti i Corni rossi, passavano sopra S. Bartolomeo e si calavano diretti sulle fabbriche d’armi, col loro sibilo pauroso.
E io allora giù a correre perché nelle fabbriche ci lavoravano le mie sorelle e il papà e mia mamma era a casa; e io, bambino, a correre giù per la scarpata con quegli aquiloni bestiali sopra di me.
Dal passo del Lividino si può scendere alla malga per i morbidi dossi ammirando, mi raccomando, l’antico circolo di pietre del bàrec, evocazione di ancestrali raduni di vacche per la mungitura, coll’accompagnamento di suoni e richiami: Sà, sà! Uéssa, uéssa!
Un fremito, però, lo si prova oltre il limite della conca, sopra il dirupo e a picco sulla massa compatta di edifici e traffico che in basso fanno ormai città la nostra valle. Un incerto sentiero ci porta a traboccare tra le rocce scoscese superando un arco di pietra fino ad un giardino incastonato nella rupe, un anfratto colmo di muschio perenne, titillato da perle trasudate dalla volta. Sempre, in estate e in inverno, nell’arido e nella neve, quel guscio di dolomia, quella grotterella discreta offre tepida umidità al minuscolo giardino, un metro quadro, allo smeralo vulvare, conservato all’insaputa dei più, nel corpo della montagna.
Spontaneo evento d’arte la costruzione coi materiali trovati sulla spiaggia. Accanto alle città, infatti, il mare depone nudi elementi e chi passa ritrova sogni, giostre e labirinti.
Gesti antichi sono il costruire, l’ordinare: un tempo per sé, un gioco, un cimentarsi che passa di mano in mano, di giorno in giorno. Un edificare al meglio ed ecco che nel mio viaggio trovo un villaggio.
Un’idea di capanna, salvazione di piccoli naufraghi. Si pone il sedile sulla soglia; si costruisce l’urna di un rito astratto; si decora il perimetro; si segna il cortile; si delimita per agire; si arreda la sabbia e si dà bellezza. Il gioco è minuto ma richiede perfezione. Lo spazio si fa paesaggio.
Edificare in perpetuo, ma ora i gesti sono in ascolto soltanto di sé, del proprio immanere, della propria cura.
Forse tombe, forse cortili, forse clessidre d’aria; il vento s’incaglia nella conchiglia, seme gettato nell’arido campo.
Fusti ficcati nel leggero delirio; con ciottoli sottratti ad ampie mareggiate e con altri legni accanto, un totem si forma. Dalle mani della fortuna viene attinta una pertica. Sminuzzate le canne, sono costruiti piccoli recinti, scatole.
Spine di scheletri innalzati: animali che scrutano l’orizzonte. Passerò di lì per capire la traiettoria di sguardi o lo sbattere di bandiere involate, o sopravvivenze a battaglie perdute, oppure aratri, vaghi intarsi, sedimenti, ciuffi, ritmi semplici, boschi di stecchi.
E mi chiedo quali sono le voglie, perchè quei lenti rifare, quali gli andati dalle case.
E sono io a rimanere? Ancora quanto? A fare nel mondo, in fondo, nuvole. Salmodia il silenzio tra il popolo assente, tra i salmastri ripari.
Tra alcuni stesi al tardo sole, fra altri che passeggiano costeggiando i labili vicoli, vago come tra resti d’antiche dimore, immaginando la direzione presa dai gendarmi e quella presa dall’assassino.
* Il racconto è liberamente tratto da fatti e situazioni storicamente documentate e riferite ai primi decenni dell’Ottocento. Le informazioni di partenza provengono principalmente dall’archivio storico del Comune di Polaveno (Brescia).
Ta tac, ta tac, ta tac… “Arriva lo Zoppo”, dice la gente al sentire il ritmo asimmetrico di zoccoli sul selciato. Lo chiamano Zoppo ma nessuno sa l’origine di quel difetto; lui stesso non lo ricorda. Forse si era infortunato la volta che cadde dall’acero dov’era salito a procurarsi il legno per gli zoccoli. Forse durante la fuga, anni prima, il giorno che tentò di recuperare la capra razziata dai francesi accampati a Sarezzo. Forse è la conseguenza della sua nascita fortunosa, tanto tempo prima, quando sua madre s’era trovata con le doglie mentre stava a prendere l’acqua al fiume ed era tornata, da sola, alcune ore dopo, col suo fardello sghembo e incestuoso. Forse, invece, si sono semplicemente accumulate zoppia su zoppia, e infatti – come i soldi rincorrono chi ne ha già – si sa che le disgrazie si accaniscono sull’anello debole della catena della vita. A vivere nel bosco il corpo diventa un tronco d’albero e la memoria delle cose non è più un pensiero, ma solo s’addensa come cerchi dentro il legno e uno dovrebbe tagliarsi alla cintola per vedere cos’è stata la propria vita.
Per tutti, dunque, è lo Zoppo. Ha poche cose e tra queste una manza di razza bruna, ma dal pelo più rosso che marrone, che pare imparentata col diavolo. Per questo gli dicono di stare attento e non perderla di vista, altrimenti la ritroverà, una qualche volta, a sputar fiamme dalla bocca per maleficio. Però la manzetta non si tiene a bada e caracolla per i sentieri che sembra piuttosto una giumenta; difficile tenerla a freno quando annusa l’erba nuova e i germogli nei boschi tagliati da poco.
Figura, la vacca, tra le poche bestie allevate in un paese dedito alla magra agricoltura di monte, che richiede il lavoro dei bovini soprattutto per tirare carri o slitte, perché lì non ci sono pianure da arare. Polaveno è un paese dove ci si rompe dalla fatica a roncare piane e pianette, a ricavar terrazze dai versanti ripidi per coltivar qualcosa, un po’ di frumento, un po’ di miglio.
Insomma, lo Zoppo ha quella manza e la porta al pascolo un po’ qua e un po’ là. Intanto lui sta ai crocicchi a guardare chi passa e a scambiare qualche parola: ogni giorno il monte si riempie di gente in cammino. Un giorno passa la Tibalda e per prima cosa lo Zoppo guarda se ha il gerlo con sé. La gente dice che se ha il gerlo significa che sta portando a destinazione la refurtiva. In un certo senso è una postéra: come accade ai mercanti di uccelli o di funghi, c’è chi le procaccia merce da rivendere, poi, da una parte o dall’altra del monte, a Gardone o a Iseo, a seconda. Però la sua merce esce da sporte trafugate, case borghesi, botteghe di bottegai incauti e distratti, osterie dove si gioca pesante e, perfino, dalle case di famiglia degli stessi ladri, perlopiù giovanotti sbandati e col gusto del bere per fare brigata. Qualche spicciolo, un rastrello o lo zappone, le verza di un orto o semplicemente la frutta degli alberi appresso alle cascine in montagna, costituiscono la refurtiva. Si rischia per quel poco che ha comunque il pregio di fruttare qualcosa in questi tempi di fame.
Anche la Tibalda ha una bettola in paese, in breve divenuta un covo per quei malpartiti che ci vanno a perdere alla morra quel che di riffa o di raffa guadagnano. Qualche mese prima ha però ricevuto un richiamo dal Comune, il quale, a sua volta, era stato incitato dalla Delegazione Provinciale a far cessare quel disordine, dato che non deve mai concedersi licenza d’osteria o di bettola a persona perniciosa. Qualcuno che ha commerci a Brescia e che sa su quali funzionari far leva, aveva forse segnalato la situazione, rispetto alla quale il Comune non si decideva a prendere iniziative. Anche alla donna non mancano, in effetti, leve da manovrare, nel retrobottega, per godere in paese di una certa compiacenza. Sorvegliata con un occhio sì e l’altro no (e più in forza delle reciproche gelosie che non dei doveri d’ufficio), la Tibalda continua dunque i suoi traffici e la clientela di balordi, nel suo piccolo, abbonda.
La Tibalda, dunque, si avvicina allo Zoppo e gli lancia un verso come si fa con le capre. Lui risponde con un cenno del capo: una sottile intesa, chiusa tra loro. Lei prosegue qualche passo, ma poi si volta e dice:
– “Quand’è che torni a trovarmi?”.
Lui alza le sopracciglia sorpreso e complice, e col bastone dà un colpo a un vecchio riccio di castagna.
– “Dicono che lo tieni in casa tu, quel disertore che cercano”. Lei ride. “Tuo marito Nicola che dice?”
– “Mio marito Nicola è di nuovo andato a travagliare al carbone e tornerà tra un po’”.
È in quel punto che il sentiero sbocca nella piccola valle. È lì che un albero sembra dimenticato dagli uomini, secolare, umido di odori e di vento. È lì che un bosco era prato fino a pochi anni fa, pascolo. Che un altro sentiero si perde, si sfa sul crinale dentro una pozza, piccolo muto verso d’acqua. È lì che rosicchiano le foglie i vermi. Vola l’upupa, torna il nibbio, raspa la talpa, il germoglio a primavera irrompe.
Seguitemi andiamo. Ora vi mostro dove il rivolo perenne consumando un’antica maiolica incide il solco e ricade su un letto di foglie, che lo tratterrà fino ai tempi della calura. Dove lascia la serpe a maggio la pelle e la foglia a marzo diviene una rete minuziosa di ossicini e poi terra. In alto le foglie lanciano riflessi. Qualcuno in basso si ferma un momento trafitto.
Seguitemi seguitemi. Una siepe tracciava il confine quando il monte era casa per gli uomini, ma ora quel segno si sfalda come terra non più irrigata. Siepe che correvi a dividere l’intero pianeta trascinando con te il convolvolo e il sentiero! Una siepe seguiva il confine, una sua radice sosteneva quel gradino divelto. Preso dal sudore e dal secco morso della scure, a un uomo un giorno rubasti un lembo di vita.
Andiamo seguitemi. Viandanti nel vecchio bosco scosceso certi alberi. Certi alberi danno frutti che uccelli e altri animali – volpi, scoiattoli – golosi divorano. E cacano i semi lontano ed essi germogliano e fruttificano le piante nuove. Viandanti nel bosco a grandi passi. Ora vi mostro questa vite, il fusto grosso come un pugno, che sale e sale nel fitto bosco abbandonato; s’innalza il frutto cacato a bere la luce.
Cede il bosco la gialla foglia; andiamo, andiamo. La terra nera di uno spiazzo dove preparavano carbone odora ancora di resine e muschio. L’alito di fate inseguite da lupi s’invola, impotente grido d’aiuto. Se guardi da qui, tra i rami, vedi la valle tutta intera.
*Il testo è tratto dal racconto di Rina Amadei raccolto a Bedizzole nel 1987
Eravamo quattro fratelli, io la più grande, sette anni, e mio fratello Vittorio, il più piccolo, due anni. Era il tempo della guerra del quindici diciotto; era rimasta lì da sola la mia mamma con quattro bambini.
Mia mamma faceva la sarta; la sera ci metteva a dormire presto e dopo stava alzata a lavorare. Si sedeva al tavolo perchè c’era una piccola lucerna che faceva luce, ed era una cucina piccola con due finestrini alti che guardavano nel brolo.
Una volta era la mezzanotte e lei stava ancora seduta a lavorare; sente che picchiano a quei finestrini. Puoi immaginare che paura avrà avuto.
– Chi mi bussa a quest’ora?
Era già un po’ di tempo che non sapeva niente del marito e di nuovo bussano e la chiamano:
– Virginia, Virginia! Sta zitta e vieni sul tavolo! Apri il finestrino che vedi quel che sono. Sono tuo marito!
Insomma ce n’è voluto… A mezzanotte, in una casa quasi isolata – c’erano i vicini ma stavano un po’ più spostati – come si faceva a fidarsi? Ma a forza di pregarla si è decisa, le sembrava di aver riconosciuto anche la voce.
– Sono scappato – dice lui – va ad aprirmi ma guarda che non ti senta nessuno! Vai ad aprire.
La sera chiudevano il cancello. E allora piano piano, quando si è convinta che era lui, è scesa ad aprire.
– Vieni in casa, vieni in casa.
– Io – dice lui – non vado più via, non parto più e sto qui! Perchè – dice – se vado via mi ammazzano.
Doveva partire per il fronte, ma era un gran rischio e un dispiacere scappare e nascondersi.
– Se vengono a sapere che sei qui ti uccidono!
– Allora è perchè non mi vuoi bene!
Subentravano questi pensieri…
Lei, poverina, per guadagnare qualcosa cuciva le camice dei soldati; gliele portava il maresciallo. Nelle case c’erano molti soldati perché qui era la retrovia. Anzi ce n’erano tre o quattro anche lì nella cascina. Be, insomma, lui è sempre rimasto nascosto. Gli era cresciuta una barba lunga così, non sembrava più neanche lui.
Noi bambini, quando a volte la mamma ci dava qualche sculaccione – ne avremo anche meritati perché quattro bambini ancora ignoranti… – noi le dicevamo:
– Verrà il papà e gli diremo che c’è qui un uomo nascosto.
Anche se, per sicurezza, lui stava attento a non farsi vedere nemmeno da noi, qualche volta ci era capitato di vederlo, magari da lontano, magari quando a volte apriva la porta per respirare, per cambiare aria alla camera. Loro dormivano insieme, ma lui non si faceva vedere, per esempio, ad andare a dormire con la mamma. Ci mettevano a letto prima, ma a volte capitava che la mattina – io ero più matura degli altri – andavo nella loro camera e vedevo nel letto la forma di un uomo, lo toccavo e dicevo:
– Ma è un uomo!
Mia sorella Iole aveva paura; eravamo bambini ignoranti e non sapevamo spiegarci la cosa: non era un soldato, era un borghese, con una barba e di quei capelli… Chi gli tagliava i capelli? Sì, glieli tagliava mia mamma ogni tanto, ma è stato nascosto in casa dieci mesi! Quando mia sorella lo vedeva, magari attraverso l’uscio, si metteva a gridare. E quando la mamma ci rimproverava le dicevo:
– Lo diremo al papà quando verrà a casa, che c’è un uomo nascosto!
Così si sono decisi a rivelare il segreto a noi più grandi; a mio fratello Vittorio e a Iole no perché erano ancora piccoli. Iole aveva tre o quattro anni, io ne avevo tre di più, sette; mio fratello Piero sei, Vittorio due.
Una sera, mi ricordo, avevano messo Vittorio e Iole a dormire e ci avevano messo io e Piero in piedi sulla cassapanca – una volta nelle case, in camera, c’erano le cassepanche – e lui ha detto:
– Sapete chi sono io?
E noi non lo sapevamo, non lo riconoscevamo.
– Io sono il vostro papà. Guardate, io sono il vostro papà! Se lo dite a qualcuno che sto qui, che sono qui in casa, vi butto giù nel pozzo.
E c’è ancora quel pozzo lì. Puoi immaginare che spavento per noi a quell’età lì.
Poi ci ha fatto le raccomandazioni e mi baciava perchè prima non aveva mai potuto neanche baciarci. Ha resistito così per cinque, sei, sette mesi, a vedere i suoi figli senza nemmeno dar loro un bacio. Diceva che ce li dava quando dormivamo, ma piano piano, per non farci svegliare. Col bene che ci voleva!
* Questo testo compare nel volume La vigna, catalogo della mostra di pittura di Rinaldo Turati, Palazzo Cominelli, Cisano di S. Felice del Benaco, Firenze. Pietro Chegai Editore, 1999.
Quando il legno del tino sogna, una brezza percorre la vigna; restituisce la gerla il respiro sanguigno del legno che si gonfia.
Quando è il contadino a sognare, la botte s’inorgoglisce; quando è sua moglie, il tralcio si volge alla luna.
I manici delle vanghe fremono sottilmente, come raggiunti da una nuova primavera.
Tendono la loro paglia le sedie della cucina; le scarpe di legno si scuotono la terra secca; le mani dell’uomo allentano la presa di radice e divengono rami nuovi.
I filari coi loro legacci bevono rugiada.
C’è chi dice che in quel mondo di legno anche i sogni lo fossero, e staccandosi facessero molto rumore.
La foglia dell’uva conversa con quella del fico. La terra nutre un nuovo germoglio.
Una canzone composta dalla fantasia popolare racconta il ciclo dell’uva e del vino dalla terra alla pianta alla botte alla pancia, per giungere nuovamente alla terra, divenire nuovo legno e nuovo frutto e nuovo succo.
È il sogno della vita fatta di cose di terra. Come nel ricordo di tanti vecchi di un tempo: il tale è figlio di quello, che è figlio di quell’altro ancora…
Generazioni che passano, mietono, vendemmiano, forse fanno l’amore nei prati con mani nodose.
Pioggia raccolta nell’incavo di secchi lasciati all’aperto; resine che trasudano.
Le doghe e i cerchi delle botti, le scale a pioli, le ceste, i carri, gli imbuti, le zucche cave da usare come otri, e il vetro dei bicchieri, il grembo dei fiaschi.
Eretta la vigna come casa. Sole e ombra. Aria.
Colore e legno, l’opera del mondo.
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