Al confronto, orientarsi fra sunniti e sciiti, e nelle nuove strane alleanze nei paesi arabi è facile. Noi, lettori di giornali e spettatori di tg, capiamo poco o niente, invece, di quel che succede in Africa, e quando succede di incontrare qualcuno che c’è stato e ne parla dunque per esperienza diretta, l’impressione di un’insormontabile difficoltà a metter ordine in quel che ci viene raccontato prevale. Soprattutto quando chi riferisce quel che ha visto non è né un turista né un volontario che per uno o due mesi si è aggregato a un’iniziativa umanitaria o a una missione. Quando si tratta di una persona che là ci sta stabilmente, da anni, è l’immagine di un mondo complicato all’inverosimile, il senso di una diversità incolmabile rispetto a quel che conosciamo, che ci si riversano addosso, e ci fanno d’improvviso sentire il nostro tremendo ritardo o, per meglio dire, l’estraneità, l’astrattezza, l’approssimazione di quel che credevamo di sapere dell’Africa.
E’ quanto mi è capitato parlando con *** (“non scrivere il mio nome, non mi interessa: faccio il mio mestiere come uno lavora in banca o insegna a scuola…”). Bresciana, sociologa (laurea a Trento poco più d’una ventina d’anni fa), e ora funzionaria Onu. Tredici anni di lavoro. In Kosovo, Costa d’Avorio, Iraq, Sud Sudan, e oggi nel Nord Kivu, una provincia – ricchissima di minerali – della Repubblica Democratica del Congo che confina con Uganda e Ruanda.
Funzionaria è però termine generico. Lei è una delle migliaia di peacekeepers. Peacekeepers: donne e uomini il cui intervento è finalizzato a “mantenere la pace”. Questo significa peacekeeping, secondo la definizione data dall’Onu stessa: “un modo per aiutare paesi tormentati da conflitti a creare condizioni di pace sostenibile”. Da non confondersi dunque, i peacekeepers , con gli esportatori di democrazia. Non fanno notizia il “disarmo e reinserimento di ex combattenti” ossia, in concreto, il cercare di convincere i guerriglieri dei vari eserciti irregolari a disertare. A tornare a casa, perché la maggior parte di loro vengono da altri paesi. Fra quelli dell’M23, uno dei tanti gruppi combattenti – è anche con quelli che l’unità cui appartiene la mia interlocutrice ha a che fare – ci sono ruandesi e ugandesi, ad esempio. Un lavoro di moral suasion si potrebbe allora definire il suo? No, non lo definirebbe così ***, perché non sono discorsi generali, di principio, che si rivolgono a queste persone. Li si invita piuttosto a badare a quel che conta, a riprendersi la loro vita, atornare a casa appunto, promettendogli l’aiuto necessario, portandogli le prove che altri hanno scelto di farlo e ci sono riusciti e adesso stanno bene, si fa per dire.
La ascolto mentre mi spiega che hanno quindici siti dislocati nel Nord Kivu, accanto alle basi militari ONU – è qui che i guerriglieri che vogliono disertare possono farlo in sicurezza – e usano cinque radio mobili, dalle quali trasmettono messaggi ai guerriglieri, nelle varie lingue locali. Poi mi mostra il video, realizzato artigianalmente, di un altro tipo di azione: il lancio di volantini dall’elicottero. Sorvolano zone montuose e verdissime, in cui la vegetazione è interrotta qua e là da villaggi che la distanza – per quanto l’elicottero voli a bassa quota – fa somigliare a villaggi vacanza (saranno i bungalow. o quelli che tali i sembrano, o il paesaggio invitante in cui sono immersi, ma l’impressione è quella). I volantini sciamano verso terra e si vedono ragazzi che corrono a raccoglierli, come si faceva, bambini della colonia marina, quando sopra la spiaggia passava l’aereo della pubblicità del dentifricio. I guerriglieri no, non si vedono: sono dentro quel verde che attornia i villaggi, ma ce ne sono anche mescolati ai civili. Non si lasciano vedere comunque, e però quei volantini li leggeranno: migliaia di loro hanno già disertato.
Ma come si è arrivati a una situazione del genere? Inevitabile chiederlo, ma ecco che di nuovo la confusione, che mi pareva di aver un po’ superato in quel racconto di messaggi radio lanciati nel fitto della foresta e in quelle immagini colorate di luoghi e persone, torna a dominare. Vicende di alleanze e tradimenti, di generali e dittatori che si fan fuori l’un l’altro, di eserciti che spuntano dal nulla, di scontri ed eccidi di cui non si riesce a fissare la successione mentre ancora te ne parlano.
Credevi di sapere qualcosa dei posti dove *** e i suoi compagni lavorano perché ti erano rimaste impresse le immagini di Hotel Ruanda, il film sul genocidio perpetrato dalla maggioranza Hutu sulla minoranza dei Tutsi (un milione di morti, nel ’94). E ti accorgi che quella tragedia non è finita. Perché fra i guerriglieri dell’M23, che combattono contro l’esercito regolare della repubblica congolese ci sono molti Tutsi: figli e nipoti dei trucidati di vent’anni fa, e a quanto pare è il Ruanda soprattutto ad armarli. Ma c’è anche la milizia Hutu delle FDLR. Sono una ventina i gruppi armati attivi nel Nord Kivu. E allora lo sforzo è quello di convincerli a smettere, sforzo contestuale all’intervento militare nel Congo orientale deciso dall’Onu nel marzo dell’anno scorso e finalizzato non solo a proteggere i civili, e gli stessi peacekeepers, ma anche a neutralizzare i gruppi armati.
Credevi che bastasse qualche foto di bambini soldato per avere un’idea della violenza che si vive là, e invece ti rendi conto, adesso, che cosa significa che molti di quelli che cercano di attraversare il Mediterraneo fuggono dalle guerre e che il viaggio sul barcone, che approdi a Lampedusa o invece finisca prima, è stato preceduto da un altro viaggio, altrettanto inimmaginabile, per fatica, costi, rischi: il viaggio per arrivare al nostro mare partendo dall’interno del continente.
Dopo l’incontro con *** leggo con altri occhi gli articoli che parlano dell’Africa, e li leggo fino in fondo. Tanto più che, nel frattempo, le notizie sono purtroppo aumentate, per via di Ebola: “all’abisso già esistente fra l’Africa e il resto del mondo che ci ha reso insensibili davanti alle stragi del Mediterraneo – ha scritto Adriano prosperi su “La Repubblica” del 9 ottobre – oggi si aggiunge la minaccia di abissi anche più profondi all’interno delle nostre società e dei nostri rapporti umani abituali. Excalibur – il cane dell’infermiera spagnola Teresa Romero contagiata da Ebola, abbattuto l’8 ottobre – può essere la prima vittima di un esperimento assai più vasto.”
Un esperimento il cui presupposto è forse già un dato di fatto: “C’è una chiara tendenza a depennare come casi da cestinare parti del mondo, quali l’Africa occidentale e quella centrale”. Lo afferma Stanley Cohen, studioso degli Stati di negazione (come si intitola il suo libro, in Italia pubblicato da Carocci nel 2002, sottotitolo: La rimozione del dolore nella società contemporanea). La mancanza di informazione non spiega tutto, anzi: “alle persone, alle organizzazioni o ad intere società sono fornite informazioni troppo inquietanti, minacciose o anomale perché siano interamente assorbite o apertamente riconosciute. Pertanto tale informazione è rimossa, negata, messa da parte, re-interpretata. Oppure essa viene sufficientemente ‘registrata’, ma le sue implicazioni – cognitive, emotive o morali – sono evitate, neutralizzate, razionalizzate”. E così che alle notizie su diverse realtà – come l’aumento evidente della povertà anche nelle società occidentali, o il riscaldamento del pianeta con le sue conseguenze più manifeste, o il disastro dell’Africa appunto – “la gente reagisce come se non sapesse quello che sa.”
E “sapere e non agire è non sapere”, ricorda Cohen riportando un antico detto cinese.