Britta Böhler, La decisione, Guanda, maggio 2016, pp. 208, euro 15
Tra il venerdì e la domenica mattina, dal 31 gennaio al 2 febbraio del 1936. Ci vogliono tre giorni, a Thomas Mann, per prendere la decisione, o meglio: per decidere di non far marcia indietro rispetto alla decisione presa quando ha portato alla redazione del maggiore giornale di Zurigo la lettera che segnerà per lui la rottura definitiva, irreversibile con la Germania ormai precipitata nel baratro nazista.
L’ha portata ma ha poi chiesto che si attendesse a pubblicarla. Ci deve pensare.
È al sicuro, ma in esilio, nella città svizzera: in Germania non tornerà mai più. Sta scrivendo la terza parte di Giuseppe e i suoi fratelli: anche Giuseppe è un reietto, “costretto a trovare una nuova casa in un paese straniero”. Ma per Mann non si tratta solo di spaesamento: per lui la rottura con il proprio paese rischia di tradursi nell’impossibilità di continuare a scrivere. Un bivio drammatico per chi è sempre stato convinto che tra la vita e la scrittura si debba scegliere e su questa convinzione ha fondato il suo lavoro quotidiano (avendo sperimentato come “si riesca a capire qualcosa di sé solo quando si scrive. I periodi in mezzo – tra un libro e l’altro – sono terribili”).
Viene da qui la tentazione di ritirare la lettera. Non semplice prudenza, ma ritorno di un pensiero radicato nel profondo: “uno scrittore deve creare, non agire”. La politica non fa per lui. Ma è anche vero che “chi non si oppone è complice”, glielo ricorda la figlia Erika, e del resto lui è diverso da Hesse, cittadino svizzero da anni, senza nostalgie per la patria. Ma lui no: lui è uno “scrittore tedesco”. Se non scrive per la Germania, se non scrive per quelli da cui soprattutto si aspetta il riconoscimento che motiva la sua scrittura, perché scrivere? “Che cosa gliene importa, di avere lettori in America e in Cecoslovacchia, in Spagna e in Giappone, se i suoi libri non possono più essere pubblicati in Germania?”.
Tra un the e una passeggiata con il cane Toby, un sigaro e una parola affettuosa della moglie Katja (quando potremo leggere i Diari di Mann in traduzione italiana?), lo scrittore comprende finalmente qual è la sua vera posizione. La Germania di cui è fatto, della quale non può fare a meno, non “è più lì dove il paese si trova geograficamente”: “dove sono io, lì è la Germania”.
Non resta che telefonare al giornale: la lettera sarà pubblicata. Non è una decisione imposta, e neanche autoimposta: è stata faticosamente guadagnata, costruita, passando attraverso riflessioni e bilanci che sono andati oltre le circostanze, non aggirando quesiti che stanno alla radice della scrittura: perché, e per chi, lavora uno scrittore? può scrivere senza un mandato sociale? può continuare a farlo senza che gliene venga un riconoscimento?
Inevitabile cercare risposte a domande simili, quanto impossibile trovarne. La soluzione, se mai, sembra star nell’ammettere un’oscillazione, un’ambivalenza insita nella figura sociale dello scrittore, nella pratica stessa del suo lavoro: “Omaggi e lauree ad honorem in fondo se li era guadagnati, ed era contento quando gli venivano tributati”, “sì, quel genere di cose lo rendeva felice, anche se spesso avrebbe preferito condurre una vita in silenzio e solitudine. Ah, nel mio petto – lo deve riconoscere– convivono due anime.” Eppure la sua scelta non può essere quella di Hesse, quella di “essere al tempo stesso dentro e fuori”: i tempi non lo rendono possibile. Ma lo scrivere sì, lo esige: senza la giusta distanza, non si scrive, o non si scrive niente di buono. E la distanza fra la Germania perduta nei meandri della follia nazista e quella che la “nobiltà dello spirito” può preservare si rivela alla fine in grado di rappresentare questa distanza essenziale. La scrittura è ancora possibile. Anzi: è necessaria.