Questa breve e variegata raccolta di scritti testimonia di uno sguardo curioso e critico, ironico e partecipe, a volte stralunato. Le diverse sezioni raccolgono testi che hanno lungamente accompagnato l’autore negli anni costruendo rimandi e assonanze pur nella diversità dei toni, che vanno dal lirico al sarcastico.
Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal primo dei racconti, La Muraglia
(…)
Da dove viene, il barbaro?
Ha lasciato anch’egli una città circondata da muri e fortificazioni? Quanto lontana, quanto diversa?
E’ reduce dalla distruzione della sua città, è forse esiliato?
No, certamente non è così. Venisse da un’altra città non sarebbe lui, non sarebbe il barbaro.
Avrebbe nome e insegne e vessilli e il suo disegno di guerra sarebbe, per quanto terribile, chiaro ed aperto.
Ma da dove viene, il barbaro?
Viene da polvere e invidia, da povertà, sudore e cieca determinazione alla vita.
Viene dalle zone franche, dalle periferie, dai bordi, dalla cintura…
Da fuori.
Da tutti i fuori.
(…)
La città agita il deserto della notte con bagliore di incendio lontano, pallida lava trattenuta dall’abbraccio della Muraglia. Da tutti falò notturni che la circondano i barbari guardano la città, misurando il loro desiderio e la loro pazienza spietata. I loro sguardi tessono trame, invisibili ragnatele geometriche che solcano il cielo sopra la città. Dentro la Muraglia la volta celeste è suddivisa ordinatamente, censita in ogni parte, classificata dai suoi abitanti nel catasto dei sogni.
Dalle loro solitarie torri, disposte lungo la Muraglia secondo un ritmo che più nessuno riconosce e frequenta, gli astronomi puntano le stelle con i loro caleidoscopi.
Celti e caldei, cinesi e maya, da lungo tempo hanno portato le loro lingue a confondersi dentro la città, oltre la Muraglia.
Il barbaro, fuori, è spinto da stelle furibonde.
(…)
La città cresce sommandosi a se stessa, cresce per sovrapposizione. Anche le parti che vengono sostitute non scompaiono mai veramente, non fosse che per la frettolosa visione quotidiana dei suoi abitanti, per la loro distratta conoscenza e la loro imprecisa memoria.
I vuoti della città non sono mai davvero vuoti, sono ferite, riscritture, palinsesti; i muri nuovi non cancellano le storie scritte dai muri vecchi.
La città cresce anche per gemmazione e per partenogenesi, per meiosi e per mitosi, con ogni mezzo e strategia la città aumenta, si ingrandisce, si complica, si allarga.
La città cresce piega su piega, si ritaglia da se stessa, sembra contraddirsi e si riafferma.
Uno stucco, un ornato barocco, un frattale.
La città cresce sempre, anche di notte, nel silenzio e nella calma apparente degli arnesi e dei rumori, nella pace e nella brezza che asciuga la pelle ai lavoranti.
La città cresce e volge le spalle alla Muraglia, cercando invano di dimenticarla. La città cresce per ignorare il suo limite, per nasconderne l’esistenza, per seppellirne la memoria.
Ma è un tentativo vano.
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Recensioni
Dal Corriere della Sera del 15 dicembre 2016.
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La Muraglia e altre genealogie è un bel libro, anzi un libro fatto di sette libri (come nelle
favole: sette libri ho consumato…). Ricchissimo, tanto da dare l’impressione di un voluto
contenimento. Il tutto all’insegna di quello che Leopardi chiama “sprezzatura”: una scrittura
impastata di nonchalance (un modo efficace per evitare cadute di ogni tipo, sempre in agguato per
chi scrive e pubblica).
Ma qui di cadute non ce n’è.
Gradevolissimo è poi il cambio di registro: domini una tastiera molto ampia, dove da un capo c’è
il lirico e dall’altro l’umoristico, con una gamma intermedia dove affiorano i riferimenti più
vari (Calvino, Borges, Kafka, Magritte …); ma mai ricalchi: è tutta farina del tuo sacco (gente
allegra, il ciel l’aiuta). Strappare sorrisi è un arte sublime e tu quest’arte la possiedi.
La sua scrittura efficace, minimalista (cioè senza fronzoli e barocchismi superflui), espressiva, il
suo registro stilistico che privilegia la brevità, il taglio a volte aforistico, la sua prosa piena di
inventiva con un giusto pizzico, a tratti, di leggera poeticità sono nelle mie corde, per quello che
vale. “Origini del buio”, fra i tanti pezzi, è delizioso e mi ha fatto venire in mente le teorie del fisico de Selby di cui parla Flann O’Brien (scrittore molto amato da Joyce) nel Terzo poliziotto.
Del libro di Marco Frusca mi è rimasto in mente il racconto La muraglia. Un racconto molto bello, strano, una scrittura sincopata. Se dovessi accostarla alla musica direi un brano jazz. Una città assediata, senza memoria, che porta in sé una biblioteca che nessuno sembra frequentare, come nel disprezzo della propria storia. La sensazione di accerchiamento che in questi anni molti di noi hanno imparato a percepire, quell’estraneità dell’altro che si muta in paura, in rifiuto, in cancelli, inferriate, porte sbarrate. Paura della contaminazione da entrambe le parti e necessità di un contagio, perché nulla ferma il passo della fame e della guerra.
Da dove viene il barbaro? Ha lasciato anch’egli una città circondata da mura e fortificazioni? Come non chiederselo quando l’altro, lo sconosciuto bussa alla tua porta, coperto di sudore e di cieca determinazione?
Sappiamo così poco gli uni degli altri, sappiamo poco del fuori, di tutti i fuori che ci fanno paura, dei falò notturni che circondano la muraglia, della pazienza spietata di chi non ha nulla, della nostalgia che ci accomuna.
L’autore sorprendentemente lascia agli alberi la mossa, alle loro radici che con astuta strategia sono uscite dalle mura, si sono allungate, sporte, diramate, indifferenti a limiti e confini…Gli alberi hanno saputo, sia pur segretamente, violare la fittizia convenzione del confine ed anche il duro dettato delle mura.
Mi chiedo se sia la sfiducia nel genere umano a consegnare all’’intelligenza vegetale il compito di intrecciare inconfessabili alleanze, mentre fuori la notte splende, vergine e selvaggia.
Percepisco in qualche anfratto del sentire, che questo testo offre una lettura più profonda, ma per il momento forse ancora troppo ardita.
Mariagrazia Fontana