Enrico Donaggio, Direi di no. Desideri di migliori libertà, Feltrinelli 2016 (pp. 158, euro 18)
Non è il discreto ma fermo preferirei di no di Bartleby. Il Direi di no attorno a cui ruota l’argomentare serrato di questo libro – serrato al punto da sfiorare a tratti l’andamento di un flusso di coscienza filosofico-politico – è un atteggiamento attivo, vigile, ma che è collettivo o non è: è la manifestazione coerente e non puramente teorica della “passione capitale che ha messo al mondo e tenuto viva la sinistra fino alla sua attuale scomparsa”. La passione critica, l’esercizio di un carattere essenziale degli umani: “animali critici”, percosi dal “desiderio di migliori libertà”. Migliori di quelle che il capitalismo nell’età della globalzzazione ci offre. Questo, come altri libri segnalati in questi appunti (Revelli, a suo modo La Porta) o I destini generali di Guido Mazzoni (Laterza 2015), parte dalla constatazione che continua ad esistere un certo numero di persone, non importa quante, che si sentono fra gli ultimi a “pensare, pretendere o sperare certe cose”, “che fino a poco tempo fa si sarebbero dette di sinistra. E che oggi, con l’estinzione di questo modo di stare al mondo, risultano quasi stranezze fuori luogo e fuori tempo massimo.” Eppure, a far sì che, fra loro almeno, si riconoscano, c’è appunto quell’attitudine a dire e fare di no. O meglio: a dire, perché il passaggio al fare si scontra con l’indifferenza della stragrande maggioranza: un atteggiamento da capire, non da condannare, rischiando di segregarsi in un’infelice solitudine critica. Si tratta invece di non dimenticare che ci siamo dentro tutti, anche noi, in questo mondo dominato dal presente, nel quale tutti portiamo inciso in fronte un “tatuaggio invisibile: Non c’è alternativa”, sicché “la più preziosa delle passioni umane – la critica, quella che valuta noi e il mondo in base ai nostri desideri di migliore libertà – continua a inviare segnali che i nostri gesti sconfessano”. E sono comunque sconfessati, se mai se ne tentino, dai partiti di sinistra in primo luogo, che hanno interiorizzato la religione del nostro tempo, il neoliberismo (salvo quelli che hanno scelto la via della “mummificazione”, “malati di megalomania antisistemica e reducismo fantasmatico “). E allora? Non ci resta che il ruolo di spettatori del naufragio? Nelle ultima pagine, qualche spiraglio sembra aprirsi: occorre ricostruire “luoghi comuni di umanità”, dai quali partire per rioccupare i problemi fondamentali del nostro rapporto col mondo, scegliere fuochi di esperienza attorno a cui organizzare questo lavoro collettivo, a partire da quella che viviamo in prima persona: uscire dalle nostre “nicchie egologiche”, quindi, e rifuggire ogni pratica di autosfruttamento, ogni tentazione di farsi imprenditori di se stessi, perseguire un avvicinamento fra la nostra passione critica e la vita che quotidianamente facciamo, stabilire un contatto intimo con i nostri sentimenti, pensieri, azioni: “non provando per una volta paura, ma speranza”.