Lars Gustafsson, La ricetta del dottor Wasser, Iperborea 2017 (pp. 155, euro 16)
È quello che i critici letterari chiamano narratore inaffidabile, il dottor Wasser: ha rubato l’identità a un morto nel quale si è per caso imbattuto.
Il suo nome, la sua professione erano altri, ma pare soddisfatto della sua messinscena, non c’è ombra di pentimento in lui. E non perde occasione per ribadirlo: “la tentazione era troppo forte. La tentazione di sfuggire semplicemente alla mia vita e viverne un’altra”. Anzi, parecchie altre, perché il dottore cambia con facilità la donna con cui vivere dando colori diversi alla propria esistenza, e anche in questo mantenendo una coscienza perfettamente tranquilla.
Non è insomma, quest’ultimo di Gustafsson, il romanzo ideale per lettori che amano identificarsi nel protagonista. Anche se, pagina dopo pagina, la fisionomia di questo imbroglione – è lui stesso a definirsi tale – vira verso quella del filosofo scettico, capace di motivare le proprie scelte con la lucida arguzia dell’anticonformista vero, dell’osservatore critico di una società in cui tutti recitano la loro parte, spesso con una dose di ipocrisia che non ha nulla da invidiare a quella di chi si spaccia per altri.
Del resto, Bo Kent Andersson – questo il nome del protagonista prima che assumesse quello di Kurt Wolfagang Wasser – delle scusanti le ha: fin da quando, ragazzo, andava a scuola, gli accadeva di far sentire insicuri i compagni, di suscitare negli altri un sottile malessere, perché “era come se indovinassero che io non sapevo esattamente chi fossi”.
È così che questo Vitangelo Moscarda svedese – privo tuttavia delle complicazioni psicologiche e degli interrogativi esistenziali dell’eroe del pirandelliano Uno, nessuno e centomila – finisce per diventare simpatico a chi ne segue le peripezie, fino a indurlo addirittura a prendere sul serio le sue meditate osservazioni di specialista dei disturbi del sonno quale si spaccia. È in questa veste che ci avverte che l’insonnia potrebbe non esser altro che la conseguenza dell’inevitabile “conflitto tra l’essere umano e la sua socializzazione”, e che del resto quella di un sonno senza interruzioni non è che una delle tante pretese della modernità, sconosciuta a un Cervantes, per fare un esempio.
Una vena di saggezza si insinua così nello humour di questo ottantenne, coetaneo dell’autore quindi, che non ha mancato di avvertirci prima di andarsene, giusto un anno fa, che “vivere una vita normale è la forma più triste di suicidio”.