Vanni Santoni, La stanza profonda, Laterza 2017 (pp. 151, euro 14)
Nel libro precedente (Muro di casse, Laterza 2015), i rave party, le grandi feste notturne clandestine e gli sballi di musica e fumo: dovunque il posto si prestasse, capannoni dismessi, cascinali abbandonati, boschi.
In questo – prima opera di narrativa proposta da Laterza allo Strega – un garage, un ex garage anzi, da anni trasformato dalla famiglia in ripostiglio. Ma questo drastico ridursi degli spazi non ha nulla di rinunciatario, o almeno non si direbbe: qui, nel garage, gli spazi sono quelli della fantasia. O meglio: del fantasy, ambiente privilegiato dai giochi di ruolo.
Rave, giochi di ruolo: i protagonisti sono sempre quelli. Bambini negli anni ’80, quando i giochi di ruolo conoscono la loro epoca d’oro, per declinare nel decennio seguente, quando i rave sono invece pratica diffusa in tutta Europa. Per poi ridursi a nicchie, gli uni e gli altri, dopo aver risposto al bisogno di quei riti collettivi, di iniziazione in particolare, che i giovani avvertivano, e non han cessato di avvertire.
Solo che nel frattempo molte cose sono cambiate. Non solo l’aggregarsi subitaneo di masse di coetanei è un ricordo, che ha lasciato il campo alla fatica di mettere insieme anche solo un gruppetto di appassionati dei giochi di ruolo: è la cittadina toscana in cui si sono trascorse infanzia e adolescenza e alla quale si torna appunto per ritrovare gli amici con cui giocare, che non è più quella, “però non sai mica quando è cambiata così, quanto è stato graduale questo cambiamento, quando è sparito l’acciottolare dei piatti sulla sigla del telegiornale, sul jingle dell’Almanacco del giorno dopo, quando le edicole aperte e l’odore di ragù e i nugoli di ragazzi sulle bmx… Sai come l’hai trovata oggi: un paio di capannelli davanti alla stazione, chiuso il bar in cui andavate a far forca ai tempi del liceo, chiuso il negozio dei giochi dove passavate le giornate e dove nacque il gruppo”.
Il sentimento della nostalgia, a quanto pare, non è prerogativa dei vecchi: anche chi non è ancora quarantenne lo può provare. Perché si può sentire nostalgia anche per ciò di cui non si è fatta diretta esperienza: per il tempo in cui la gente stava insieme di più, ad esempio. E tutta la fatica che il protagonista fa per rimettere insieme un gruppo di giocatori non è questo in fondo? Anche se, al centro, più dei giocatori (qua e là echeggianti alla lontana profili e movenze che richiamano i ragazzi di Trainspottig) ci sono loro, i giochi, con la loro nomenclatura – inglese, non occorre dirlo – sempre in evoluzione: chi ha l’età giusta troverà in questo libro una sorta di album di famiglia, e una lingua che oggi è usuale, con il suo mix di anglicismi e slang quotidiano.
Chi invece è più in là con gli anni potrà adeguare ai propri ricordi l’esperienza del successo e del rapido crepuscolo (anche se molto meno rapido che negli anni successivi) dei giochi che hanno segnatola sua infanzia: le costruzioni, di legno, soppiantate dal meccano, di metallo, e dal lego, di plastica; il trenino elettrico trascurato per la scatola del monopoli.
Una storia minore che non è finita: i giochi di ruolo (con il loro dadi, matite, schede e manuali di istruzioni) non hanno forse aperto la strada agli immateriali videogiochi, che certamente non sono un punto d’arrivo, anche se non sappiamo a cosa preludano?
Discorsi stravaganti, da collezionisti o storici dell’infanzia? Walter Benjamin non lo credeva: fra le molte cose che riconosceva come spiragli, indici significativi, per comprendere il mondo contemporaneo e la vita che vi conduciamo i giocattoli occuparono sempre per lui un posto di prim’ordine.