Carl Safina, Al di là delle parole, Adelphi 2018 (pp. 687, euro 34)
“Parliamo di esseri umani e animali, come se tutti i viventi ricadessero in due sole categorie: noi e tutti gli altri.”
“Come può l’uomo conoscere, con la forza
della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale
confronto fra essi e noi deduce questa bestialità che attribuisce
loro?”
A dispetto dell’“intimità” che
connota il nostro rapporto con diversi animali – cani e gatti
innanzitutto – “conserviamo una tentennante insistenza sul fatto che gli
animali non sono come noi – benché noi stessi siamo animali. Potrebbe
mai una relazione basarsi su un intendimento più profondo?”
“Abbiamo
difficoltà a capire gli animali, ma, invece di prendere atto di questo
limite, abbiamo l’impudenza di crederci superiori a loro”.
“Può
darsi che noi siamo (…) incapaci di comprendere la ricchezza che altre
specie percepiscono nella propria comunicazione: così come loro sono
incapaci di capire quella della nostra specie”.
“Noi
non comprendiamo le bestie più di quanto loro comprendano noi. Esse
potrebbero avere di noi la stessa considerazione che noi abbiamo di
loro. Dobbiamo quindi prendere in considerazione l’ipotesi di una
sostanziale parità e provare a verificarla. (…) Del resto, vediamo in
modo evidente, che c’è fra loro una piena e totale comunicazione, e che
esse si capiscono fra loro, non solo quelle della stessa specie, ma
anche quelle di specie diverse”.
Alcune frasi sono dell’autore di questo
libro; altre di Montaigne. La consonanza è tale che sarebbe difficile
distinguere le une dalle altre e attribuirle correttamente se il
corsivo non evidenziasse quelle di Safina. Non si tratta solo di
riconoscere la straordinaria modernità di Montaigne, ma di ammettere che
sono secoli ormai che abbiamo capito come stanno le cose, fra noi e gli animali.
Sennonché un conto è sapere, un altro è saper di sapere e quindi
regolarsi di conseguenza. I massacri di elefanti in Africa (10 milioni
all’inizio del secolo scorso; 400mila oggi) ci dicono che continuiamo a
fare come non sapessimo. Che cosa? Tutto quello che Safina ci dice
prendendo spunto dall’osservazione di elefanti, appunto, e lupi e orche,
ma allargando il discorso a molte altre specie: lo spirito cooperativo
degli animali, la loro capacità di provare non solo dolore, ma anche
empatia e compassione, sentimento del lutto e felicità del gioco; le
loro abilità comunicative e linguistiche; la complessità delle loro
forme di socialità.
Caratteri che altri
autori illustrano con altrettanta precisione, ma forse non così
efficacemente. Perché Safina, al dato di osservazione e
all’argomentazione scientifica unisce la capacità narrativa.
Al
comparire di una mandria di elefanti, “la terra cotta dal sole aveva
preso la forma di qualcosa d’immenso e vivo, ed era in movimento. (…) La
pelle, mentre si muovevano, corrugata dal tempo e dall’uso, con le
screpolature impresse dal passare degli anni, quasi che vivessero
avvolti dalle mappe sgualcite della vita già percorsa. Viaggiatori nei paesaggi dello spazio e del tempo.”
“Quando orche e delfini ci vedono spesso vengono a giocare; noi li salutiamo, e guardandoli negli occhi possiamo riconoscere che là dentro c’è qualcuno di molto speciale. Là dentro c’è qualcuno. Non è umano, ma è qualcuno…”. Ed proprio guardando i delfini che seguono la sua imbarcazione, dopo la meraviglia si chiede il perché dell’insoddisfazione che prova: “Volevo sapere che cosa stessero provando, e capire perché li percepiamo tanto interessanti e così… vicini. Questa volta mi permisi di porre loro la domanda che è il frutto proibito: chi siete?”
Ecco, in questa domanda sta il fulcro del metodo di Safina, etologo e filosofo trasgressivo: perché sa muoversi nello spazio stretto che è rimasto fra il comportamentismo (inaugurato, di fatto, da Cartesio e dalla visione dell’animale-macchina che ne è derivata) e l’antropomorfismo; senza perdersi nella polemica contro il primo, senza cedere alla paura di scivolare nel secondo, ma avendo fiducia nella propria empatia nei confronti degli animali riconoscendone allo stesso tempo la diversità, fra di loro innanzitutto e, dunque, anche fra ciascuna specie e la nostra.
La strada maestra è quella indicata da Henry Beston, citato in esergo (e in questi giorni in libreria con La casa estrema. Un anno di vita sulla grande spiaggia di Cape Cod, Ponte alle Grazie 2018): “l’animale non ha la sua misura nell’uomo. (…) Non sono nostri fratelli, non sono nostri sottoposti; sono altre nazioni, catturati insieme a noi nella rete della vita e del tempo, prigionieri con noi dello splendore e del travaglio della Terra.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora