Mori Ōgai, L’intendente Sanshō, Marietti 1820, 2019 (pp. 91, euro 10)
Quanti fratelli e sorelle popolano le fiabe che conosciamo, in qualche modo simili a Zuschiō e Aniu? E non mancano certo in questa storia le funzioni che Vladimir Propp enucleava nella sua Morfologia della fiaba, a partire dall’“allontanamento” che innesca il racconto della vicenda. Non di un racconto fantastico si tratta però in questo caso, ma di una leggenda che un medico militare giapponese vissuto fra Otto e Novecento, cultore della letteratura tedesca, riscrive in un’epoca in cui il suo paese conosceva profondi rivolgimenti politici e culturali, tali da mettere in discussione il passato e la tradizione. Il compito che Mori Ōgai si assegna è allora quello di rivisitare leggende con l’acribia dello storico, non per farne uno studio critico tuttavia, bensì per rendere il suo lavoro “del tutto contemplativo” e ottenere un “effetto di straniamento” – per il quale è stato accostato a Brecht – capace di ridare un senso attuale agli antichi racconti. Lealtà, onesta, sacrificio sono le coordinate di uno stile di vita che l’autore continuava a ritenere in grado di contrastare – come fa notare nella sua introduzione Maria Teresa Orsi – “un’etica sociale troppo rigida e irrispettosa dei diritti individuali”. L’etica con la quale si trovano a doversi misurare i protagonisti, una giovane madre che, con una figlia di quattordici, un figlio di dodici anni e una fedele servitrice, si mette in viaggio alla ricerca del marito, vittima dell’ingiustizia, ed è animata da uno spirito di fiduciosa ragionevolezza che esce confermato dall’incontro con persone semplici quanto giuste e compassionevoli, ma deve fare i conti con la doppiezza, l’arroganza, la violenza di potenti contro i quali, ad assicurare giustizia alla famiglia, interverrà la protezione di una divinità benevola, Jizō – protettrice sia dei bimbi dalla nascita travagliata o addirittura non realizzatasi e anche dei viaggiatori, ma che la nostra sensibilità potrebbe per certi versi accostare alla figura dell’angelo custode – e, infine, varrà il sacrificio della vita cui la figlia – richiamando un’altra figura, quella di Antigone – si sottopone.
Oggetto di reiterate rivisitazioni, la leggenda, proprio nella versione di Ōgai, caratterizzata dall’intento di ribadire l’irrinunciabilità dei diritti umani essenziali, ha conosciuto negli anni Cinquanta anche una trascrizione cinematografica che ha inaugurato in Italia l’interesse per il cinema giapponese.