Goffredo Fofi, L’ oppio del popolo, Elèuthera 2019 (pp. 166, euro 16)
“Per uno come me – conclude l’autopresentazione che è anche un rapida autobiografia intellettuale ad apertura del libro – e magari più intelligente e meno sconcertato di me, la cultura appare oggi come un campo di battaglia ancora possibile, ma fuori da ogni illusione di vittoria e partendo dalla constatazione, per cominciare, di quanto sia stato facile per il potere servirsi della cultura (…) cambiando di segno alla sua storia e illudendo milioni di persone che di cultura vivono di una sua forza ancora liberatoria, non evasiva e perfino necessaria. Facendone facilmente dei complici della manipolazione, del dominio”. È la sintesi del discorso, con un’appendice decisiva, su quel che occorre fare ma non tutti possono: “È un lavoro, ancora una volta, di cui devono farsi carico minoranze salde nelle loro persuasioni, convinte della necessità e dell’urgenza dell’azione, nauseate dalle compromissioni universitarie e affini, dalla lotofaga insipienza dei predicanti e idealizzanti, degli accettanti”.
Se il pensiero, a quel richiamo a minoranze convinte e rigorose, va a un altro recente pamphlet, quello di Gustavo Zagrebelsky (Mai più senza maestri, Il Mulino 2019), la critica spietata che passa in rassegna i diversi settori e aspetti della cultura sembra evocare i toni perentori, non di rado sarcastici, del romanzo di Francesco Pecoraro (Lo stradone, Ponte alle Grazie 2019).
Il bilancio pesantemente dello stato delle cose è infatti anche qui decisamente negativo: “Scrivo queste pagine con apprensione, convinto della loro inutilità, per dovere di testimonianza e nella speranza di convincere qualche giovane lettore della gravità della situazione che stiamo attraversando e della ignobiltà delle proposte che gli adulti vanno facendo, chiedendogli di diffidare anche dei miei discorsi”.
Il discorso che da questi presupposti si sviluppa dimostra come l’identificazione di un nuovo oppio del popolo nella cultura – intesa in tutte le forme assunte, a partire dagli anni Ottanta soprattutto: dall’informazione, oggi detta comunicazione, all’arte e alla letteratura, dal teatro al cinema, dall’editoria alle altre branche dell’industria culturale (festival compresi), dalla scuola al volontariato nelle variegate forme del terzo settore – non sia il frutto di quell’ “esasperazione personale” che pure l’autore ammette, ma di un’analisi dettagliata che non solo la vastità dei riferimenti ma anche lo stile adottato – fatto di giudizi inappellabili e riprese frequenti ma sempre pertinenti e di un tono che unisce l’invettiva alla considerazione scettica – non consentono di rendere in una nota di lettura.
Ognuno può trovare in queste pagine argomenti che lo toccano da vicino. Chi si prova a scrivere, ad esempio, si troverà a riflettere sulla necessità di “guardare con perplessità o sconforto alle illusioni degli scriventi – altra cosa dagli scrittori, secondo la distinzione introdotta dalla Morante – e dei leggenti (spesso molto simili e vicini tra loro, a volte e sempre più spesso la stessa persona) e dunque sull’opportunità di “guardare alla scrittura e alla lettura come a ‘droghe’ non poi così secondarie, grazie alle quali si può diventare certamente più intelligenti ma anche, e pericolosamente, più acquiescenti all’andamento del mondo così come lo guidano i potenti, diventandone passivamente complici”. Perché “Se il verbo non si fa carne, cioè presenza e intervento nella storia per renderla migliore, per riscattarne la tragedia, è grande il rischio che rimanga inerte chiacchiera, ciarla, evasione. E, a ben guadare, colpa”. Ma più in generale, a trovare in questo libro motivi di inquietudine e ragioni di autoesame sono – siamo – tutti coloro che in tesi come quelle espresse da Fofi in varia misura si riconoscono senza per questo avvertire, tuttavia, la necessità indilazionabile di cercare un sbocco pratico, politico, collettivo alle loro convinzioni. A tutti costoro l’autore rivolge un invito preciso, anche se non certo declinabile in soluzioni specifiche: “diamoci scopi adeguati ai bisogni del tempo in cui viviamo, ai bisogni di questo tempo. Se non lo facciamo, siamo semplicemente dei complici e dei vili. Magari intelligenti, magari bravissimi, (…) teste che scrivono e dicono cose di grande interesse e perfino utili, ma indifferenti”, nella sostanza. Non distinguibili da coloro che “Non credono più in nessuna possibilità di contrastare la china, anche se sanno che è una china mortale. Si accontentano di quel che passa quel che chiamano Storia” e “Finché dura, riescono persino a trarre da questo una sorta di drogata felicità”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.