Gian Luigi Beccaria, Il pozzo e l’ago. Intorno al mestiere di scrivere, Einaudi 2019 (pp. 160, euro 18)
Scrivere è trovare il modo di “scavare un pozzo con l’ago”, secondo un modo di dire turco riferito da Orhan Pamuk. Non è tanto il perché e il per chi si scrive, infatti, ma il come a interessare gli scrittori, gli scrittori veri, quelli cioè che sanno bene di dover fare i conti con innumerevoli “padri letterari”, nel contempo consapevoli che ormai da tempo “è caduta quell’idea durata secoli secondo la quale sembrava ci fossero più cose dentro ai libri che fuori”. Si tratta di non ignorare la tradizione, quindi, ma neanche il fatto che il consenso che circondava lo scrittore, frutto di un mandato sociale certo, è tramontato.
Non è un trattato sistematico né una ricostruzione storica, e tantomeno un manuale di scrittura (“ce ne sono troppi e quasi tutti poco utili”) il libro di Beccaria, linguista e critico letterario, ma un insieme di osservazioni su pochi autori (“quelli che conosco”) e il loro modo di svolgere il mestiere scelto. Il mestiere di scrivere. Un mestiere che diventa “una specie di vizio”: “ti pare che il mondo non esista se tu non scrivi”, ammetteva Maria Corti, consapevole come tanti altri autori “di esistere soltanto nella propria scrittura”. Perché – non meno recisamente dichiara Pennac – “L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale”. Sono, queste, solo alcune delle citazioni che Beccaria cuce in un discorso che prendendo a prestito la voce degli autori più disparati si fa via via appassionante, per chi scrive, ma anche per chi – forse saggiamente – si limita a leggere e rappresenta l’interlocutore essenziale dello scrittore. Perché, anche se non si scrive più per i posteri – come faceva Petrarca – e qualcuno, come Calvino, giungeva addirittura a riconoscere che “si scrive perché non si sa fare niente di meglio”, di fatto “sullo sfondo della mente di chi scrive restano sempre i lettori”. “Scrivo perché mi piace essere letto”, confessa candidamente Pamuk, mentre Beccaria, da parte sua, si dichiara “propenso a credere che sia la grande attrazione del fare ciò che lega un autore al suo mestiere, pari al gusto con cui un artigiano trova la sua realizzazione di homo faber applicandosi quotidianamente”. Lo stesso Calvino ne conveniva: “io resto uno scrittore di impianto artigiano, mi piace fare delle costruzioni che chiudono bene”. Sulla stessa linea Primo Levi, che concepiva “lavoro pratico e scrittura come attività molto vicine”. Anche nel fatto di non chiedere semplicemente estro e fantasia, ma piuttosto una “fatica controllata”, che si è imparato ad affrontare, a gustare persino, leggendo i libri migliori degli altri, perché “uno scrittore, quando legge, pensa anche alla sequenza delle pagine a venire che scriverà in proprio”.
È un elogio dello scrivere quello che emerge dal testo, da una selezione attenta dei punti di vista che Beccaria conduce a conclusioni esemplari di autori come Varga Llosa, serenamente convinto che “lo scrittore sente profondamente che scrivere è la cosa migliore che gli sia capitata e possa capitargli, perché scrivere significa per lui il miglior modo possibile di vivere”.
Non cambiano l’andamento del discorso né il metodo adottato quando l’autore passa a considerare il “lavorio sul testo” una volta scritto e, in particolare, la preziosissima e imprescindibile “arte del levare” (“Più facile scrivere che cancellare”, avvertiva Camillo Sbarbaro: “il merito dello scrittore è in ciò che riesce a tacere”); quando dedica pagine alla scrittura poetica, o alla non pianificazione che presiede molto spesso alla scrittura, anche narrativa (“La maggior parte degli scrittori non segue una mappa, ma procede con una bussola”); al ruolo dell’invenzione e dell’immaginazione anche laddove sembrerebbe che l’autore non faccia che ricordare, riferire.
Certo, ogni discorso, non escluso questo sul mestiere di scrivere (e di leggere…), deve fare i conti con l’epoca in cui si svolge: è innegabile che “di un’opera narrativa il lettore medio oggi ama più l’intrico, non le impalcature della costruzione e le raffinatezze dello stile, ma – assicura l’autore – “le mie annotazioni non nascono dalla malinconia di chi guarda indietro”: “anche la modernità (ha) saputo cogliere il respiro dell’universale, e lo ha fatto esaltando il minimo”, come ha fatto Magris in Danubio, per esempio, ove risulta “manifesto che la pienezza del vivere non si ritrova tanto nel maestoso e nell’eclatante, ma si annida nelle piccole cose, nei gesti e nel dettaglio apparentemente insignificante”.
Ma anche di un’altra circostanza occorre tener conto: “Siamo totalmente immersi, come mai era accaduto prima, in un mare di racconti e riprese in tempo reale”, “valanghe di descrizioni e immagini” che “cadono su di noi già anestetizzati”. Si pensi alle tragedie nel Mediterraneo. Occorre allora una consapevolezza del tutto nuova per rendersi conto che “soltanto quando questo Inferno trova una narrazione, soltanto allora conquista un di più di realtà e di forza”. Perché “il realismo della cronaca svanisce troppo rapidamente. La letteratura ha maggiore durata”. La letteratura, ma non tutto ciò che viene pubblicato: “Occorre districarsi – infatti – tra una selva di prodotti spesso scadenti, nei quali prevale lo stile di non avere stile, pagine tirate via alla svelta, che mimano l’oralità del come viene viene”. Memori di quanto Leopardi scriveva nel suo Zibaldone: “Chi scrive senz’arte, non è semplice”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.