Mattia Corrente, La fuga di Anna, Sellerio 2022 (pp. 256, euro 16)
“Perché ogni cosa di te mi fa dimenticare che non ci sei? Succede per davvero. Io non ci credo che non ci sei. Ma dura il tempo di un battito di ciglia”. L’ottantenne Severino non ce la fa a stare solo nella casa che la moglie Anna ha improvvisamente abbandonato, e allora lascia Stromboli – dove si erano stabiliti “per godersi la vecchiaia”, dopo gli anni in cui lui era stato impiegato postale – e torna a Librizzi, sulla collina del messinese, il paese dove si erano sposati una cinquantina d’anni prima, nel 1964 (e che è anche il paese dell’autore). Il racconto della peregrinazione del vecchio (i paesi, le case che hanno abitato, le persone che conoscevano) e il progressivo emergere della storia, di Anna e sua, marciano di pari passo, mettendo in scena altre figure, dando loro la parola nell’alternanza delle voci narranti e nel seguito discontinuo degli episodi narrati senza riguardo per la cronologia.
È la figura di Peppe, a spiccare sulle altre, il padre di Anna, tormentato dalla colpa di cui si è macchiato ai tempi della guerra e dopo anni risoltosi a scomparire lasciando un segno profondo nella figlia tredicenne, facendone la donna che sarà: “tu avevi deciso che nessuna forma d’amore sarebbe riuscita a bastarti. Ti saresti nutrita di mancanze. L’ho capito tardi, Anna, che esistono persone fatte per essere felici e altre che semplicemente non si arrendono alla felicità. E tu, di questa seconda specie, eri la più coraggiosa di tutte”, ricorda Severino riandando alla resistenza che lei aveva opposto al matrimonio, una resistenza non diretta contro di lui, che pure non aveva scelto, ma contro il destino prospettatole dalla madre, perentoria (“Na fimmina nasce per essere mugghìeri di un uomo e mamma d’un figghiu”) e allo stesso tempo suadente (“Non m’u dari stu duluri. Non basta quello che mi desi tuo padre quando mi ha lasciata sola a crescere due figghie?”).
Il siciliano stretto è funzionale all’evocazione di un sistema di valori, di un quadro di relazioni entro cui si delineano le vite. Un quadro non immutabile, tuttavia: “Tu sei Anna e Anna può fare quello che le va di fare. Anna è libera” le aveva detto un giorno il padre quand’era ancora una bambina. Anna è libera, ma sa che “l’amore di un marito, fosse solo per dovere o riconoscenza, va ricambiato sempre”: parole che Severino trova in una lettera spedita dalla moglie a un’amica decenni prima e che lo costringono a un ripensamento amaro: “La tua vita al mio fianco dunque era una gabbia dentro cui hai deciso di restare per non fare torto a nessuno”. Fino al momento in cui Anna sente di poter uscire da quella gabbia perché, lo sa bene il marito, “sono stato io a sposarti, tu mi hai soltanto assecondato”, tuo padre è stato “l’unico uomo che hai amato per davvero”. Lo sapeva anche Serafina, la madre di Anna: “Il primo amore di una figghia è so patri”.
Le vicende dei protagonisti e degli altri personaggi non sono, in questo romanzo, che il filo di una tessitura più vasta, che le ingloba: quella delle vite che si succedono, generazione dopo generazione, alla ricerca sempre di riconoscere il senso del proprio destino o di dargliene uno. I figli restano segnati nel profondo dalle speranze e dalle delusioni dei genitori, ma diventano a loro volta genitori di figli che non gli appartengono, perché “li mettiamo al mondo che sono già di là del vetro”, della parete invisibile che separa le vite.
E anche chi è scomparso rimane nonostante tutto coinvolto in questo intreccio: il racconto in prima persona di Peppe scorre in parallelo, facendosi strada nel racconto di Severino e degli altri, sino a giungere a un bilancio che va oltre la sua vicenda: “ci vuole coraggio, a scappare e non tornare più e a provare a essere un altro mentre sei ancora in vita (…). Quando decidi di scomparire l’idea è inebriante solo all’inizio, poi sprofondi nell’ossessione che gli altri ti cercheranno, aspetteranno che torni, e più il momento di scomparire si avvicina più hai paura di rimanere schiacciato dal peso insopportabile della loro attesa che magari svanirà, magari ti dimenticheranno per davvero o ti crederanno morto ma tu non lo saprai mai. Non saprai mai se per loro arriverà la pace della rassegnazione. Resterai prigioniero di quell’atroce dubbio che terrà in vita per sempre la persona che non vuoi più essere pure se tu sei già altrove. Quando scompari rischi di non diventare più nessuno, non sei più quello che eri ma non puoi essere nemmeno un altro. Ma se fossi certo che soltanto una persona, una soltanto, non ti aspettasse? Se soltanto una persona sapesse dove sei e cosa hai fatto?”
È Anna questa persona, la figlia cui il padre aveva confidato il suo rovello e la necessità di andarsene, per sempre. È per tornare dal padre che, nonostante i decenni trascorsi ne abbiano ormai fatta diventare definitiva l’assenza, Anna fugge.
Ma scomparire non è solo una scelta, come hanno fatto padre e figlia: “In ogni luogo dove sono stato per cercarti – deve constatare Severino – non c’è nulla di noi che tenevi nascosto. Una foto insieme, una lettera di quando eravamo fidanzati, un misero ricordo di Anna e Seve. Più ti cerco e più mi sento scomparire. Anche Seve di quando eravamo insieme sta scomparendo. Mi stai cancellando persino nei miei ricordi.” Solo in questo comune scomparire a Severino pare di ritrovare la moglie: “E adesso che ti ho ritrovata, niente mi fa paura. Nemmeno che tu non ci sei”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.