Delphine Horvilleur, Piccolo trattata di consolazione. Vivere con i nostri morti, Einaudi 2022 (pp. 160, euro 16,50)
Ci sono parole che, pur facendo ancora parte del lessico comune, ne sembrano tendenzialmente relegate ai margini, non solo perché usate più raramente che in passato ma anche perché il ricorso ad esse appare sempre più cristallizzato in formule che ne impoveriscono il senso. La “consolazione” è spesso ben magra, se non addirittura amara, tanto da qualificare il premio che non ci si augura di ricevere, mentre suona vagamente ipocrita, e non a caso capita sia citata ironicamente, la rassicurazione che i parenti – sempre meno frequentemente, c’è da dire – inscrivono nel necrologio o vogliono incisa sulla lapide dichiarandosi inconsolabili.
Eppure la consolazione è – o dovremmo dire era? – l’espressione di una volontà discreta ma determinata di alleviare il dolore pur sapendo che esso non abbandonerà chi lo prova: non è la presunzione, sia pur generosa, di liberarlo dalla sofferenza, ma di fargli sentire che non soffre in solitudine. È quasi il consiglio di non fuggirlo quel dolore, ma di non lasciarsene distruggere; di ammetterne la presenza, ma di non lasciare che pervada la vita fino paralizzarla.
È delicato e complesso ciò che chi consola intende offrire, tanto più quando a dover essere affrontato è il dolore più profondo, angoscioso. Il dolore della morte di chi amiamo, o quello che si profila nel presentire la propria. Un dolore che aggredisce con tanta più violenza perché “è nella natura umana credere di poter tenere la morte a distanza, creare delle barriere e delle narrazioni, adoperarsi per scongiurarla, persuadersi che rituali – non ultimi quelli celebrati in ospedale, dove sempre più spesso si muore – e parole abbiano questo potere”. Lungi dallo sconfessare questa credenza, l’autrice ci si riconosce: è un rabbino, e dunque “Trovare le parole (…) è il cuore del (suo) lavoro”, i suoi racconti sono i racconti sacri, non solo perché tratti dalle Scritture ma perché capaci di aprire “un varco fra i vivi e i morti”, per cui “Il ruolo del narratore è quello di stare sulla soglia, per garantire che resti aperta”.
La laicità di questo rabbino francese e la sua interpretazione della sapienza dell’ebraismo sanno parlare oltre la diversità, o l’assenza, di ogni credo religioso, fissando riferimenti maturati nell’esperienza del confronto con la morte. Di qui la prima, fondamentale assunzione: “Durante tutta la nostra esistenza e anche se non ce ne rendiamo conto, la vita e la morte si tengono costantemente per mano, e danzano”. L’oncologia ha chiarito che le cellule che si rifiutano di morire uccidono l’organismo di cui fanno parte: è solo “quando la vita e la morte si tengono per mano che la storia può continuare”. Anche nella forma delle storie che, di chi è morto, i vivi possono conservare. Sono queste le storie che Horvilleur ha raccolto in questo libro. Con quel preciso intento: offrire consolazione.
Anche se, più che vere e proprie storie, quelle che ci vengono proposte sono rapide evocazioni di figure come quella di Elsa Cayat, una delle vittime dell’attentato alla sede di Charlie Hebdo: psicanalista abile nel far dipanare le loro storie ai pazienti, atea e amica di un rabbino come l’autrice, che torna a portare sulla sua tomba non fiori, che appassiscono ma, secondo l’uso ebraico, un sasso, che sa “esprimere la tenacia del ricordo”. Ma è il raccontare nel modo giusto la storia di chi è morto a non decretarne irrimediabilmente la scomparsa, e la regola è semplice. “Mai raccontare una vita dalla fine bensì attraverso tutto ciò che in essa s’è creduto ‘senza fine’. Saper dire tutto quel che è stato e quel che avrebbe potuto essere, ben prima di dire quel che non sarà mai più. (…) fare in modo che la nostra memoria resti fedele alla complessità della loro esistenza, che a sua volta non si riduce alla tragedia della fine”. È questo il presupposto perché possiamo portare con noi i “nostri morti”, così vivendo in prima persona l’assenza di una separazione netta tra la vita e la morte, senza dover pensare che sia “necessario credere letteralmente a una vita dopo la morte o alla presenza di anime che abitano le nostre vecchie case, per ammettere sul piano razionale che tutti viviamo con dei fantasmi”.
È difficile, sintetizzandone il contenuto, per quanto se ne richiamino le suggestioni, rendere il tono sereno, sommesso ma non di rado brillante del discorso di questa scrittrice, e non si tratta della storiella ebraica che qua e là è richiamata, ma della disinvolta semplicità con la quale si riferisce di chi, portando le sue condoglianze, è talmente straziato che “finisce per farsi consolare da chi è in lutto”, o di quelli desiderosi che il rabbino dia “un senso all’insensato” della morte, quando invece le parole che pronuncia “Non servono ad altro che a dire questo, che non c’è più senso”, che “nel lutto le parole perdono senso”. Ma non per questo abdicano alla loro funzione: “i riti del lutto esistono per accompagnare i morti ma ancor più per accompagnare coloro che restano. La cerimonia deve permettere loro di attraversare la prova, quella cioè della sopravvivenza, cui per definizione non è il morto a essere sottoposto”. Sta ai vivi “accettare che la caratteristica della morte sia che non si è più viventi, evidenza lapalissiana che espone una verità tanto terrificante quanto profonda”, ma che può indurci, “pur nel profondo del nostro terrore”, a “pensare a chi, alla nostra morte, sopravvivrà”: “dopo la nostra morte, c’è quel che non sappiamo. C’è quel che a noi non è ancora stato svelato, quel che gli altri faranno, diranno e racconteranno meglio di noi, perché noi siamo stati”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.