Magda Szabó, La porta, Einaudi 2022 (pp. 266, euro 17)
Due protagoniste e due comprimari. In primo piano, due donne, una scrittrice e una donna di servizio; sulla scena, al loro fianco, il marito della prima (anche lui scrittore) e un cane, raccolto dalla strada, che appartiene alla scrittrice ma riconosce come sua padrona, amandola di un amore incondizionato, la domestica. La storia si svolge nell’arco dei vent’anni trascorsi dal momento in cui Emerenc ha cominciato – dopo avere, lei, raccolto referenze sui potenziali datori di lavoro – a occuparsi della loro casa, presentandosi come una “vecchia fuori dagli schemi”, ruvida, spesso scostante, taciturna, ma grande lavoratrice, capace di gesti di attenzione che le hanno assicurato il rispetto dell’intero quartiere in diverse case del quale esercita la sua professione. Rispetto e simpatia, anche se nessuno ha mai potuto entrare nella sua casa, la cui porta resta rigorosamente chiusa, invalicabile.
Si sa solo che ci vive anche un gatto – che si rivelerà poi essere solo uno dei nove che la donna ha via via raccolto e accudisce, mossa da un misto di compassione e di senso di giustizia. Ma questo si capirà più avanti, quando anche il passato drammatico di Emerenc – segnato dai momenti cruciali della storia novecentesca dell’Ungheria – poco a poco si rivelerà alla scrittrice. La quale, per anni, deve arrendersi al fatto che cercar di parlare di ciò che è stato con la sua domestica è inopportuno: “Emerenc non aveva studiato Eraclito, ma conosceva la sua filosofia meglio di me, che ritornavo, appena possibile, nella città dov’ero nata alla ricerca di cose irreparabilmente scomparse (…) e naturalmente non trovavo nulla perché chissà dove scorreva in quel momento l’acqua del fiume che trascina i cocci della mia vita. Emerenc era troppo saggia per tentare imprese impossibili (…), ma naturalmente mi occorse molto tempo per capirlo”. Ed è appunto questo sforzo di comprensioneil tema del romanzo: il confronto fra la stravaganza, a suo modo coerente, non di rado aggressiva, di Emerenc e la ragionevolezza della scrittrice, la finezza con la quale analizza le impressioni e i sentimenti che l’altra suscita in lei. Un atteggiamento, questo, che suscita identificazione nel lettore – che pure riconosce a tratti le ragioni dell’insofferenza del marito e del suo tentativo di estraniarsi dal rapporto fra le due donne.
Il fatto è che in questo rapporto non gioca semplicemente lo scarto fra due caratteri, ma un diverso modo di stare al mondo conseguente a un marcato dislivello culturale, aspetto questo che l’intellettuale animato dai principi dell’eguaglianza tende, o tendeva fino a tempi recenti, a sottovalutare, se non a negare. Non è questo il caso della nostra scrittrice: in lei non c’è traccia della curiosità, dell’interesse antropologico, del rispetto dettato da un a priori ideologico che l’intellettuale progressista a volte rivolge alla persona priva di studi ma abile e coscienziosa nel proprio lavoro; parallelamente, nella domestica non c’è ombra di soggezione, di ammirazione e corrispettivamente di senso di inferiorità nei confronti della padrona che passa il suo tempo a scrivere. Tutt’altro. “Agli occhi di Emerenc tutti i lavori non manuali, che non richiedevano fatica fisica, erano roba da pelandroni, una specie di truffa (…) non conosceva l’uso del termine ‘antintellettuale’, ma era l’incarnazione dell’antintellettualismo”. Il che non le impedirà, col tempo, di vedere nella macchina da scrivere della padrona uno strumento di lavoro, non tanto dissimile dalla scopa con cui lei pulisce i pavimenti e toglie la neve dai marciapiedi del quartiere.
La scrittrice, a sua volta, fa un percorso analogo, che dal sospetto che Emerenc sia “un po’ tocca” arriva al riconoscimento della sua moralità: “a lei riusciva spontaneo tutto ciò che io dovevo impormi con un certo sforzo, e non importava che agisse inconsapevolmente, la bontà di Emerenc era naturale, io, invece, mi ero educata a esserlo [buona] (…). Emerenc un giorno sarebbe stata capace di farmi capire, senza dire nemmeno una parola che (…) la mia morale non era altro che disciplina, il risultato dell’allenamento al quale mi avevano sottoposto il collegio, la scuola, la famiglia”.
Costellato di continue rotture e riconciliazioni fra le due donne, legate ormai da un sentimento di reciproco profondo affetto, il romanzo sfocia in un epilogo drammatico dal momento in cui il corpo di Emerenc non risponde più alla sua “volontà d’acciaio” che, in extremis, le fa scegliere di barricarsi in casa coi suoi gatti e rifiutare ogni cura. Sino al tracollo, al quale la scrittrice non sarà presente perché chiamata a ricevere un premio che riscatta le umiliazioni intellettuali e politiche subite per anni. Il suo senso di colpa si accompagnerà al lutto del cane, che percepisce a distanza la morte di Emerenc e dopo un lungo ululato ammutolisce. Per sempre.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.