Massimo Recalcati, La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia, Feltrinelli 2022 (pp. 142, euro 16)
Vivere significa accumulare perdite. Delle persone che amiamo e da cui siamo amati (quando “il trauma della perdita consiste innanzitutto nel fatto che non c’è più nessuno ad attendermi”), ma anche di età della propria vita irrimediabilmente trascorse, di amori e speranze, di progetti nei quali ci identificavamo e si sono poi rivelati irrealizzabili. E non preserva dal dolore sapere che “ogni legame implica la possibilità della sua dissoluzione non come un’eventualità tra le altre, ma come un suo inevitabile destino”.
Tuttavia, se è inevitabile – e ricorrente, fino alla fine – l’esperienza del lutto non si può dire univoca, non si manifesta sempre e solo in un modo: può risolversi in uno stato di malinconia, nel quale il mondo intero appare privo di senso, oppure in mania, in una sostanziale negazione della ragione stessa del lutto. L’atteggiamento del ripiegarsi sul proprio dolore in un caso; il gesto del voltar pagina, come si dice, nell’altro. Lo spirito dei tempi sembra premiare, oggi, la seconda soluzione – se dura oltre qualche settimana, il lutto va trattato, secondo opinioni accreditate, come una patologia psichiatrica –, mentre occorre ammettere che l’elaborazione del dolore arrecato dalla perdita richiede un “tempo che non può essere definito a priori”. Il che non può impedire di riconoscere che l’attaccamento esclusivo e potenzialmente definitivo a ciò che si è perduto rappresenta un’alternativa che tende a escludere ogni possibile evoluzione della propria condizione esistenziale, se non addirittura il prosieguo stesso della vita.
Ecco allora la tesi che ci viene proposta: la possibilità di individuare una terza via a partire dalla constatazione che nessun “lavoro del lutto” – com’è detto l’inevitabile decorso, lento e doloroso sino all’insostenibilità, che segue a una perdita, sempre che non si cerchi subito, e maniacalmente, di misconoscerla – può comunque sbarazzarsi di un “resto, qualcosa di indimenticabile”, quello, forse, che a volte si sente definire metaforicamente, a seconda dei casi, come ferita aperta o cicatrice (ma “le cicatrici psichiche, sebbene restino invisibili, sono perennemente vive”). Ma è proprio qui, in questo “resto”, che germina il sentimento della nostalgia. Un sentimento a sua volta ambivalente, soggetto a risolversi in rimpianto o invece – e questo è molto meno scontato – in gratitudine. Meno scontato ma anche un po’ sospetto: sentir parlare di gratitudine a proposito di situazioni segnate dal dolore cocente di una perdita può dare l’impressione che il discorso abbia preso la piega del fervorino. Non è raro che capiti, in saggi simili, ma non in questo libro: leggerlo è (anche) ricredersi sul fatto che dal piano dell’analisi l’autore sia passato a quello dell’esortazione, e il discorso, circostanziato, sostenuto dall’esperienza personale come dal confronto con casi concreti, abbia finito per assumere i toni della predica edificante.
È quell’immagine delle stelle morte, richiamata nel titolo, a sgombrare il campo e a farci accostare senza remore agli argomenti che ci vengono via via proposti. Stelle morte: stelle che non esistono più eppure continuano a farci giungere la loro luce, una luce che è “presenza viva di un’assenza”. Persone, o esperienze, che appartengono al passato e nulla potrebbe richiamare in vita, e che tuttavia si fanno oggetto e tramite di una nostalgia che nutre la vita, la vita che si ha ancora da vivere.
Lo sapevamo – grazie ad autori come Vito Teti (in queste note all’inizio dell’aprile 2021) – che la nostalgia può avere anche questo versante, non coincidere con il rimuginio melanconico ma avvicinarsi alla speranza, nella sua accezione più vasta, e dunque non necessariamente legata a un oggetto preciso. Ma Recalcati va oltre, offrendoci una declinazione nuova di questo potere della nostalgia, del posto che può occupare nella vita quando ci riporta a “un passato che non è portatore di colpa e di rimpianti quanto piuttosto di un sentimento profondo di gratitudine” dandoci sia il senso, lo spessore di quanto abbiamo pur vissuto, sia una “promessa di avvenire”, essendo, il passato, “un tempo che possiamo risignificare costantemente”. Come la nostra vita nel suo insieme del resto, che non è altro se non il frutto del racconto che, per lo più implicitamente, non cessiamo di farcene.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.