Lorenza Gentile, Le cose che salvano, Feltrinelli 2023 (pp. 310, euro 19)
Non ha ancora trent’anni quando, a differenza del fratello, dopo la morte della madre trova il coraggio di lasciare l’austero e tirannico padre e tornare in città. Ma, per quanto protagonista di una vicenda che non manca di risvolti drammatici, Gea è mossa da un ottimismo di fondo, da una speranza sostanziale che trae forza da quel che di buono c’era nell’ideale di autosufficienza a cui il genitore l’ha educata: sembra di vederla, lei e gli altri personaggi, muoversi con leggerezza e insieme determinazione, svagatezza e impegno.
Come in uno di quei film francesi che, al di là della loro trama, ci contagiano con la loro verve ironica e il loro sentimento positivo degli altri. E dunque, fermamente convinta che “buttare è sprecare un’opportunità, spesso la migliore”, perché “se salvi una cosa, questa un giorno può salvare te”, Gea si fa artefice di un’“economia circolare di quartiere”, il quartiere che ritrova – fra i due Navigli, a Milano – “come quando lo avev(a) visto da bambina: le botteghe, il pavé, il tram, il ponticello, la chiesa” e soprattutto le persone – donne soprattutto, come la portinaia Dalia, l’ostessa Angelina, la commessa Adelaide con la figlioletta Aria, l’avvocata Priscilla, accomunate dalla capacità di ascoltare le storie degli altri. Che è poi “un modo per farli tornare a esistere”: tutti hanno bisogno degli altri, “noi esistiamo soltanto quando qualcuno ci guarda, quando qualcuno ci ascolta, se qualcuno ci riconosce siamo lì”.
Coerentemente con le sue convinzioni, la ragazza trova il suo spazio inventandosi un mestiere di cui gli abitanti del quartiere non sapevano ci fosse bisogno: “di lavori è pieno il mondo, io faccio la tuttofare nel nostro palazzo. La gente spesso non si fida. Non è considerato un mestiere da donne. (…) chi scopre quante cose so aggiustare, montare, smontare, pulire, riadattare in genere mi richiama”. Ma non si tratta solo di efficienza. Gea sa comunicare – senza far discorsi – la sua filosofia, semplice e rivoluzionaria, di boicottatrice di supermercati: “perché comprare lì uno shampoo che ha dentro la paraffina, che è un derivato del petrolio, quando possiamo utilizzare una pappa di farina di ceci e acqua tiepida? Perché acquistare un vaso da fiori fabbricato oltreoceano quando basta un flacone vuoto di detersivo, e intendo un flacone recuperato per strada”. Già, perché “il mondo è popolato di doni per chi ha l’occhio allenato. Io conservo e riparo in attesa del giusto destinatario”.
La storia potrebbe essere tutta qui, una leggera, scherzosa parabola ecologica. Ma c’è dell’altro: se è tornata proprio in quel quartiere è perché l’unica volta che vi era stata la nonna, che vi abitava, l’aveva portata a vedere un “luogo magico”. “Si chiamava Il nuovo mondo, eppure era stipato di cose antiche”, “una specie di soffitta incantata, uno scrigno di tesori, un mondo parallelo”, in cui “ogni oggetto sfoggiava un cartellino con la sua storia, scritta a mano” e sopra la cassa un cartello avvertiva che “Qui niente ha un prezzo, tutto ha un valore”. La nonna aveva subito colto il segreto della nipotina, una bambina alla quale “piaceva credere che ogni oggetto avesse avuto una vita felice, magari più vite”, e che toccasse a lei “dargli un futuro”, adattandolo, proponendone il riuso. Non l’aveva più dimenticato, Gea, Il nuovo mondo, ed è quindi con pena che dalla sua finestra ne guarda la serranda abbassata, giorno dopo giorno. Finché, una mattina, quasi non crede ai suoi occhi vedendola sollevata, ma la delusione è immediata: il negozio, privo di eredi dopo la morte della sua padrona, è andato all’asta e l’agenzia immobiliare che l’ha comprato l’ha ovviamente messo in vendita.
La lunga, incerta, coraggiosa e fantasiosa lotta di Gea e delle sue alleate per impedire che il negozio di vecchie cose diventi una sala scommesse o un’hamburgeria – facendosi così tassello di un più vasto processo di gentrificazione del quartiere – occupa la parte maggiore di un romanzo che fa sorridere senza rinunciare a mandare messaggi che vanno al di là della vicenda narrata. Uno per tutti: “La manutenzione è affetto per il mondo. È non dare niente per scontato. È spingere la morte un po’ più in là. Non bisogna mai smettere di amare le cose, se vogliamo che sopravvivano. Il mondo si spegnerebbe se il sole smettesse di guardarlo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.