Gaëlle Nohant, L’archivio dei destini, Neri Pozza 2024 (pp. 336, euro 20)
Francese, Irène Martin, ma da più di venticinque anni abitante in Germania, in un paesino dell’Assia i cui abitanti “la vedono sempre come un’estranea”. Come mal sopportano è l’archivio, istituito dagli Alleati dopo la seconda guerra, in cui lei lavora, l’International Tracing Service: “Non abbiamo abbastanza fastidi quotidiani, c’è proprio bisogno di rivangare in eterno quelle vicende?”. Le vicende sono quelle delle vittime della Shoah, morti, profughi e scomparsi che volontariamente o meno hanno lasciato dietro di sé delle tracce che l’archivio, appunto, raccoglie e cerca di far pervenire ai discendenti, “altrimenti la tomba rimane aperta in fondo al cuore”. E fra i discendenti ci sono cittadini francesi, ecco perché all’Archivio occorre una come Irène, che accetta senza esitazioni, reduce dal divorzio seguito alla nascita del suo primo e unico figlio.
È così che si è trovata a passare le sue giornate, i suoi anni, fra “decine di chilometri di archivi e di raccoglitori, lungo i quali si potrebbe procedere per ore senza udire le grida e i silenzi che racchiudono” se non si avesse “un orecchio fine e una mano paziente”, perché “bisogna sapere cosa si cerca ed essere pronti a trovare ciò che si era smesso di cercare” fra tutte quelle carte e fotografie salvate dalla distruzione ordinata da Himmler: “negli ultimi mesi di guerra, gli Alleati avevano dovuto fare un corsa contro il tempo, perquisendo le amministrazioni tedesche, gli ospedali, le prigioni, gli uffici di polizia, gli ospizi e i cimiteri”, senza contare che in seguito “la caduta della Cortina di ferro aveva liberato una quantità di altri segreti”. Ma non sono solo documenti scritti e immagini ad essersi conservati, come Irène apprende nel momento in cui la direttrice dell’Archivio le affida il compito di indagare su “tutti quegli oggetti provenienti dai Lager (…) reliquie dell’inferno” che attendono di essere restituite a chi ne saprà riconoscere il valore. “Quasi tremila oggetti”. Orologi dalle lancette che “indicano l’ora in cui si sono fermate, come un cuore cessa di battere”, portafogli vuoti, pagine d’agenda che recano parole in lingua straniera che non hanno smesso di riecheggiare “l’urgenza di vivere e l’angoscia”, fedi nuziali, montature di occhiali rotti. Persino “un Pierrot (…) un piccolo pupazzo dal tessuto logoro che si sfilaccia”. Sarà proprio questo a innescare un’indagine destinata a dividersi in rivoli che formano, di rimando in rimando, una ragnatela fatta di nomi, volti, vicende di amori e di abbandoni, di vite che hanno inizio e di altre che finiscono. Una ragnatela in cui ci si perde, ma non conta. Il lettore deve affidarsi alla narrazione, seguendo la protagonista sulle “tracce lasciate dalle vittime [che] illuminano squarci tenebrosi”, speranze tramontate tragicamente, esempi di coraggio morale inimmaginabili che hanno saputo tener testa agli orrori perpetrati nei campi e, fra chi ne è uscito, al senso di colpa che inevitabilmente tormenta i sopravvissuti.
La passione di Irène, nel suo andirivieni fra gli scaffali dell’Archivio e i viaggi che la portano a incontrare i parenti rimasti, non è priva di interrogativi angoscianti: “Tanti sforzi per salvare qualche traccia di un popolo assassinato, in un mondo che non cessava di distruggere, di devastare. Che non aveva imparato a rispettare la vita, anzi, non faceva che superare nuovi limiti di barbarie, di indifferenza”. A contrastare questa caduta di senso possono essere solo iniziative come quella di un giovane, che Irène incontra nei suoi spostamenti, intenzionato a “metter insieme un archivio dell’esilio, intervistando i richiedenti asilo” di oggi: “si tratterebbe – afferma fiducioso – di farli entrare nella nostra storia”; o il progetto che una ragazza, incontrata durante una visita a Ravensbrück, le illustra: “non vogliamo un museo dove piangere le vittime per rifarsi la coscienza. Noi vogliamo che la gente rifletta sulla continuità della storia, sulle nuove forme di fascismo” che si concretizzano nel rifiuto dei migranti. Che si accaniscono, oggi come ieri, sui destini di donne uomini bambini che volevano solo vivere la propria vita.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.