Federico Luisetti, Essere pietra. Ecologia di un mondo minerale, wetlands 2024 (pp. 112, euro 16)
Il titolo è lo stesso di quello di uno scritto di Calvino, del 1981: “Io sono una pietra. Lo ripeto: una pietra. So che non potete capirmi”, esordiva la protagonista, consapevole delle difficoltà di spiegare “quello speciale modo d’essere dello spazio che è l’essere pietra”. Di spiegarlo ad esseri che passano, mentre “la pietra resta”: “la nostra natura minerale resta la più forte: è essa che implica e include l’uomo (…) è l’uomo che serve il disegno delle pietre, non le pietre quello dell’uomo (…) la potenza dell’edificazione è già in noi, e verrebbe messa in atto anche se l’uomo non ci fosse”.
L’antiantropocentrismo di Calvino non si limitava alla considerazione degli animali – ben illustrata da Serenella Iovino in Gli animali di Calvino. Storie dall’Antropocene, in queste note nell’ottobre dell’anno scorso –, ma s’allargava a comprendere l’“universo non biologico”, ricavandone una distinzione essenziale: si può essere soggetto, e come tale essere riconosciuti, anche se non si è persona.
L’adesione a questo modo di vedere è il presupposto di questo libro, nel quale giocano tuttavia anche motivazioni personali: “Sono cresciuto nelle Alpi piemontesi – racconta Luisetti – , in un profondo nord italiano fatto di fabbriche tessili ed egoismo industriale” che hanno preso energia e smaltito prodotti chimici in un ambiente “che resta malato e inquinato. Forse per questa ragione le pietre mi hanno sempre affascinato più della società degli uomini”, animali predatori, primati disfunzionali che si arrogano “il privilegio di sancire quali esseri terrestri possono definirsi soggetti e quali no”. In questa pretesa va cercata l’origine della crisi ecologica che viviamo, nel mancato riconoscimento che “il meccanismo evolutivo predominante è la co-evoluzione, la dissoluzione dei confini tra specie e individualità”, ma non solo: anche fra soggetti viventi e non viventi, fra esseri identificabili nella loro individualità ed esseri che invece non lo sono, come “montagne, valli, fiumi e ghiacciai”.
Si apre a questo punto una doppia riflessione. Da un lato, sulle culture indigene del Sud America e dei movimenti, da esse ispirati, che si oppongono alla “privatizzazione delle risorse naturali” da parte di imprese transnazionali; dall’altro, sulle difficoltà non solo politiche, ma anche concettuali che incontra il riconoscimento della personalità giuridica di soggetti non umani che, appunto, non sono persone, e quindi non rispondono alla logica che ha istituito una differenza sostanziale fra persone e cose, fra cultura e natura (un altro nodo che la crisi ecologica impone di sciogliere, sulla scorta degli studi più avanzati dell’antropologia contemporanea, come quelli di Philippe Descola, in queste note all’inizio del 2022).
L’essenziale è acquisire il principio che “le pietre non sono uno sfondo passivo della vita animale” e che “l’intimità con la materia e la fabbricazione di strumenti litici – schegge, punte di selce, lance, asce – hanno seguito l’evoluzione del genere homo”. Per questo “un’‘archeologia della mente’ dovrebbe prendere avvio dallo studio degli strumenti utilizzati dai primi esseri umani nell’età della pietra” partendo dal riconoscimento dell’artificialità della distinzione fra mano e cosa, fra soggetto e oggetto, fra cultura e natura e giungendo alla conclusione che “i primi strumenti in pietra non sono un ricettacolo passivo di forme imposte dalla mente”, ma “con le loro proprietà materiali hanno strutturato la percezione e il pensiero umano”. Un punto di vista, questo, assunto da alcuni artisti contemporanei: l’italiano Giuseppe Penone, ad esempio, soprattutto in opere come quella significativamente intitolata Essere fiume, nella quale mette a confronto due blocchi di roccia, uno scolpito da lui e l’altro modellato dalle acque.
Al fondo di suggestioni come questa e più in generale del nuovo modo di pensare da cui l’ecologia non può prescindere, si può individuare il Deus sive Natura di Spinoza: “non esiste un Dio come persona, perché divine sono le forze impersonali della natura” e dunque “il campo relazionale in cui sono immersi gli esseri-terra – monti e fiumi, pietre e ghiacci – mostra i limiti della coscienza umana e svela una nozione più ampia e inclusiva di soggettività, che si spinge oltre l’idea occidentale di persona”.
Gli esseri-terra, “lontani dai desideri e dai bisogni della vita biologica”, si affiancano e accompagnano la vita biologica. “I loro corpi registrano e testimoniano con partecipazione materiale e impassibilità morale le vicissitudini degli esseri viventi”: “in un’epoca di cambiamento climatico e di crisi delle forme di vita abituali, l’esistenza di soggetti indifferenti alla logica predatoria della persona umana ci chiede di ripensare le nostre relazioni con il mondo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.